Ormai malato terminale di cancro, il documentarista politico Leonard Fife (Richard Gere), un tempo cineasta engagé di prestigio, riavvolge il nastro della propria vita per raccontare di quando, nel 1968, anziché partire per il fronte in Vietnam, si recò dal Massachusetts al Canada. Lo fa davanti alle telecamere devote di un ex allievo, Malcom (Michael Imperioli) e sotto lo sguardo vigile dell’ex moglie Emma (Uma Thurman), ma si percepisce presto che Leonard potrebbe aver taciuto il vero motivo per cui non andò in guerra…
Tutta la produzione di Paul Schrader è incentrata sul tema della colpa e della redenzione, che ha esplorato anche nei suoi ultimissimi film (la trilogia composta da First Reformed del 2017, Il collezionista di carte del 2021 e Il maestro giardiniere de 2022), ma Oh Canada!, che uscirà in Italia col titolo I tradimenti (a sottolineare didascalicamente il senso di impostura sotteso al personaggio di Fife), ha un sapore molto diverso rispetto alle ultime fatiche del cineasta e sceneggiatore di Taxi Driver.
Messa da parte la dissezione cruda e torbida di una mascolinità dannata, Schrader si concentra stavolta su un protagonista senile, dallo sguardo appassito e ficcato dalla malattia, ritrovando Richard Gere oltre 40 anni dopo quell’American Gigolò che fu punta di diamante dell’immaginario virile schraderiano: una reunion che dà all’attore la possibilità di tornare a recitare in un ruolo impegnativo, alle prese col grigiore e l’appassimento della vecchiaia ma anche con una luce malinconica e disillusa nello sguardo.
Una scelta di casting senz’altro perfettamente coerente e preziosa, quella di Gere, che accresce il sapore testamentario di un’opera indubbiamente minore, nella galassia creativa del cineasta, ma all’interno della quale il dispositivo narrativo scelto (una confessione frontale, a favore di telecamera) serve a valorizzare le coordinate quiete e soffuse di un vero e proprio bilancio esistenziale dai tratti tanto chiaroscurali quanto crepuscolari.
Ingabbiata con rigore e grazia nelle maglie dolci e pastose del cinema classico americano, la narrazione di Oh Canada! si articola attraverso diversi livelli del racconto che si muovono tra passato e presente (in cui Gere da giovane è Jacob Elordi), bianco e nero e colore, in una sovrapposizione di stili e formati (widescreen, 4:3) che ribadiscono totale la fiducia di Schrader nelle immagini come dispositivo di elaborazione: della memoria, naturalmente, ma anche dei traumi che finiscono per ridefinirla e plasmarla a mere esigenze di sopravvivenza del sé, specie quando lo scolorire definitivo della vita e lo spegnimento di sensi sempre più intorpiditi paiono ormai irreversibili e si finisce col vedere tutto sfocato.
In Oh Canada! psicanalisi e fotografia, e dunque Sigmund Freud e Susan Sontag, si incrociano nel segno dell’impossibilità di distinguere il vero dal falso, l’azione dall’inazione, la nevrosi dal sintomo, la presa diretta della vita con la sua elaborazione fantasmatica a posteriori delle sue tappe. Col cinema a fare, ovviamente, da sola traccia possibile e viatico d’ascolto prediletto di se stessi, sintesi verbale e materiale di ossessioni sospese da qualche parte tra l’epifania e la manomissione della propria identità (proprio come accade con Leonard, personaggio che Schrader carica di molti segni autobiografici).
Tratto dal romanzo Foregone dello scrittore americano Russell Banks (scomparso nel 2023), del quale Schrader aveva già trasposto sul grande schermo Affliction nel 1997, Oh Canada è dunque un film di fantasmi concretissimi, di tremori del corpo ma anche di palpitazioni della mente e dello spirito: un costante slittamento dagli uni agli altri permette al racconto di approdare a un finale che si concede perfino il lusso – didascalico, ma non per questo meno struggente – di omaggiare a fior di labbra Quarto potere e, per estensione, tutte le Rosabella di questo mondo che tengono in vita i sogni incompiuti di autori destinati a non essere dimenticati.
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