Alla fine degli anni Sessanta, in Colombia, nella regione settentrionale abitata dagli indiani Wayuu, che ancora vivono di pastorizia e coltivazione della terra, l’ambizioso Rapayet sposa la giovane Zaida. In poco tempo, il ragazzo convince delle proprie capacità imprenditoriali i capiclan e avvia un fiorente commercio di marijuana verso gli Stati Uniti alleandosi per interesse con una famiglia rivale. La ricchezza derivante dal narcotraffico modifica radicalmente lo stile di vita della comunità di Rapayer e conduce nel corso degli anni Settanta a uno scontro fratricida con gli alleati, che verrà combattuto cercando di rispettare usi e tradizioni di un mondo in via di sparizione.
Oro Verde – C’era una volta in Colombia (il titolo originale è Pajaros de Verano, quello anglofono Birds of Passage) racconta di un’iniziazione al narcotraffico attraverso i codici del cinema gangsterisco, ma lo fa sposando una sensibilità autoriale molto forte e perfino radicale. La droga è un argomento più volte affrontato in chiave audiovisiva negli ultimi anni, trattato molto spesso sia dal cinema che dalla serialità, ma i registi colombiani Ciro Guerra e Cristina Gallego hanno saputo trovare una prospettiva originale per declinarlo, tanto nelle dinamiche di genere quanto nello sguardo adottato, formalmente molto controllato e a dir poco feroce nella sostanza.
La messa in scena di Oro Verde, presentato alla Quinzaine des réalisateurs dello scorso Festival di Cannes e in seguito al Festival di Locarno, è infatti attentissima dal punto di vista estetico, serrata e scrupolosa tanto nel mettere a fuoco le coordinate antropologiche del mondo che rappresenta, approfondito attraverso la storia epica e insieme tragica di una famiglia che si trova coinvolta nel boom del commercio di marijuana, quanto nel lavorare sulle ricadute morali, rapide e incontrollabili, di tale attività.
Guerra veniva dalla regia, in solitaria, de El abrazo de la serpiente, racconto mistico del rapporto tra alcuni scienziati e uno sciamano amazzonico, e conferma quanto il suo sia un cinema di forze ancestrali e pulsioni primordiali, nel quale il metafisico fa costantemente i conti col terreno, vi scende a patti e se ne lascia sedurre e cannibalizzare (il suo prossimo film, Waiting for the Barbarians, tratto dal romanzo omonimo del grande scrittore sudafricano J.M. Coetzee, sarà girato in lingua inglese e avrà per protagonisti Johnny Depp e Robert Pattinson).
Oro Verde racconta, in una buona sostanza, di una metamorfosi cruciale guidata dall’ebbrezza drogata dell’illegalità e lo fa risalendo agli archetipi della sopraffazione capitalistica e della smania di successo e arricchimento. Le sue immagini possiedono una precisione secca e chirurgica, evidente nel modo asciutto ma allo stesso tempo spettacolare con cui vengono filmati gli omicidi e le sparatorie. È cinema sfaccettato e dilatato, disperato e fascinosissimo, quello di Oro Verde, che parla di migrazioni (gli uccelli del titolo sono i predatori che mutano luogo e si spostano seguendo le loro esigenze) con la fermezza di una presa di coscienza pronta ad abbracciare il senso di morte e di precarietà che non può che attraversare certe parabole lontane da ogni legge di Dio e dell’uomo.
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