Risale a ormai più di un decennio fa il primo capitolo della trasposizione del personaggio letterario di Michael Bond. Il primo Paddington riprendeva e costruiva attorno all’icona londinese una confezione per famiglie di tutto rispetto, aderendo ai classici stilemi del racconto con alieno introdotto nella civiltà con freschezza.
Le premesse già elevate vengono surclassate tre anni dopo dal secondo capitolo, ancora più politico e contemporaneo del precedente, oltre a diventare ancora più visivamente accattivante (regalandoci il vero film per famiglie alla Wes Anderson che l’autore texano non è ancora riuscito a girare) e ad aver garantito a Hugh Grant l’interpretazione migliore della sua carriera.
L’uomo dietro questi due film, Paul King, ha ormai reso noto il suo abbandono alla saga. Lo scorso anno ha infatti realizzato il Wonka con Timothee Chalamet, che difatti incarna una versione più “imprenditrice” dell’archetipo paddingtoniano; mentre ora è in lavorazione il suo film sul Principe Azzurro Disney, di cui vestirà i panni Chris Hemsworth.
La trilogia dell’orsetto va comunque almeno portata a conclusione. Entra quindi in soccorso l’esordiente Dougal Wilson, proprio per il capitolo che vede finalmente il detour del protagonista. Infatti in Paddington in Perù la famiglia Brown si ritroverà a visitare la terra nativa del peloso protagonista, scoprendo col loro arrivo la misteriosa scomparsa di zia Lucy, la quale li porterà ad imbarcarsi in una burrascosa avventura, traghettati da Hunter Cabot (Antonio Banderas), guida turistica assetata di ricchezze.
Seppur con un incipit certamente più dinamico, la ricetta di questo family movie resta pressoché invariata rispetto al passato, nel bene e nel male. L’ingenua bonarietà di Paddington lo porta, pur con qualche difficoltà, a cadere sempre in piedi e ogni membro della sua famiglia ha la sua personale missione con sé stesso, che porterà puntualmente a termine con la conclusione del film.
Antonio Banderas si sostituisce al divo di Notting Hill nel ruolo dell’esuberante villain, con tanto di numerosi e spassosi alter ego (e altrettanti outfit). Certamente il risultato non arriva a quell’apice, ma la verve non gli manca e continua comunque a catalizzare l’attenzione del pubblico quando compare in scena; come si può dire lo stesso di Olivia Colman in panni clericali.
L’elemento più interessante (oltre che riuscito) dell’operazione risiede nella naturale continuazione del suo discorso sugli inglesi di seconda generazione. Se nel primo e nel secondo si sorrideva sui pregiudizi della società nei loro confronti, con Paddington in Perù il punto di vista cambia e diventa interno: è lo stesso orsetto a interrogarsi continuamente sulla sua identità e retaggio culturale.
Scisso tra il Perù e l’Inghilterra, per la prima volta il protagonista è davvero smarrito e privo di punti di riferimento, cercando di riprodurre in una dimensione più infantile il dissidio interiore di chi si ritrova influenzato da due culture molto diverse. La metafora di Paddington emerge quindi in maniera ancora più efficace.
Sicuramente si avverte la mancanza di Paul King in una certa perdita in genuinità e spontaneità nelle gag ricorrenti e nei dialoghi, talvolta fin troppo latentemente imitata. Tuttavia, Paddington in Perù non sfigura affianco ai suoi predecessori, mantenendone intatto lo spirito e dimostrandosi una sensata prosecuzione dell’arco narrativo del suo chapliniano mattatore.
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