Sesta opera da regista per Morten Tyldum da cui ci si aspettava non poco, visto l’ottimo riscontro avuto con il precedente The Imitation Game, pellicola che gli è valsa anche la candidatura all’Oscar come miglior regista. Invece, la delusione per la sua ultima fatica, Passengers, è parecchia. La sceneggiatura di Jon Spaihts (primo sceneggiatore di Prometheus; Doctor Strange; il prossimo La Mummia) è piatta, con dialoghi (non molti in realtà, vista la natura del film) abbastanza banali e di scarso impatto. Alla fotografia Rodrigo Prieto (La 25esima ora; 21 grammi; Alexander; I segreti di Brokeback Mountain; Argo; The Wolf of Wall Street; e il prossimo all’uscita Silence) e alle musiche Thomas Newman (Le ali della libertà; L’uomo che sussurrava ai cavalli; Vi presento Joe Black; American Beauty; Il Miglio Verde; Il ponte delle spie) vanno di pari passo con regia e sceneggiatura (almeno la coerenza si salva!), concorrendo a creare un film senza carattere. Apprezzabile invece la scenografia di Guy Hendrix Dyas (X-men 2, Inception, Steve Jobs) che ci lascia qualche spunto di riflessione interessante. Il mini-super cast (Chris Pratt, Jennifer Lawrence) a poco o nulla è servito nel tentativo di risollevare le sorti di un’opera che solo all’inizio pare mostrare buone intenzioni.
L’astronave Avalon, che ospita a bordo più di 5.000 coloni in sonno criogenico, deve compiere un viaggio interstellare di 120 anni per raggiungere, dalla terra, il pianeta Homestead II, nuova futura casa per i terrestri. Durante il viaggio un impatto con uno sciame di meteoriti provoca diversi danni all’astronave, uno dei quali causa il risveglio anticipato, di circa 90 anni, di uno dei passeggeri, Jim Preston (Chris Pratt). Jim quasi subito si arrende ad un atroce destino di solitudine, con la sola compagnia del barista/robot Arthur (Michael Sheen) a confortarlo. L’eremitismo involontario del protagonista non tarderà (diciamo così) a terminare dal momento che un’altra passeggera, Aurora Lane (Jennifer Lawrence), si sveglierà dal criosonno e diventerà compagna (a tutti gli effetti) d’avventura del buon Jim. I due, insieme, dovranno cercare un modo per riparare i danni provocati all’astronave e, se possibile, tornare in sonno criogenico per potersi risvegliare stavolta al momento prestabilito, 90 anni dopo.
Il film del Norvegese Tyldum inizia con spunti interessanti che potrebbero rappresentare dunque i punti chiave attorno cui far girare la prossima ora e passa di pellicola. Purtroppo non è così! La parte coinvolgente, tutti in sala lo sanno, non può durare a lungo perché si sa che prima o poi l’entrata in scena della Lawrence romperà l’interessante solitudine di Chris e la piega che potrà prendere la storia, da quel momento in avanti, è facilmente e troppo banalmente immaginabile. Nessuna critica alla Lawrence, sia chiaro, sempre brava a calarsi nei personaggi che interpreta, ma allo svolgimento della trama. Quindi siamo giunti alla storia d’amore: lunga, matrimoniale, sdolcinata, armoniosa, egoista e noiosa! La fantascienza (o avventura, come qualcuno ha definito il genere a cui questo film apparterrebbe), ci si rende conto, fa solo da sfondo ad una storia d’amore non convenzionale soltanto per l’ambientazione. C’è l’ovvio tentativo, con il prosieguo della storia, di ritornare a qualche faccendina lasciata in sospeso. “Moriamo noi e tutti gli altri 5.000 passeggeri, oppure mettiamo un attimo da parte le smancerie, cerchiamo di riparare il possibile in questa maledetta astronave e facciamo un tentativo per arrivare in qualche modo a destinazione?”. “Ma si dai”. Anche qui delusione! Nessun colpo di scena. Tutto va come deve andare. Manca la tensione nelle scene chiave e non sono assenti, e accettabili per lo spettatore, ingenue (fin troppo!) e assurde imperfezioni nella costruzione della supermega tecnologica astronave. Imperfezioni accettabili se non fossero state decisive nello svolgersi della trama. Ma lo sono. A ciò si aggiungono le incongruenze che riguardano il processo stesso di criogenesi. In definitiva, il film scorre lento, manca di verve e alla fine è sembrato che fosse durato di più rispetto ai suoi 95 minuti ca. Pratt e Lawrence, complici molte cose che non funzionano intorno a loro, risultano bravi ma non eccelsi. Non si riesce a creare un legame tra i protagonisti e lo spettatore, il quale invece si annoia per gran parte del film. Piccola nota di merito per la scenografia di Guy Hendrix Dyas che ci consegna un’ambientazione super tecnologica, artificiale, lussuosa, fredda, in cui predomina un bianco senza sentimenti. Certo, è tutto temporaneamente meraviglioso sulla Avalon, con i suoi comfort ecc., ma resta pur sempre una macchina creata dall’uomo che mai potrà ideare qualcosa di tangibile che possa essere paragonata o che addirittura possa sostituire la Natura, a cui l’uomo non deve mai rinunciare e, come suo ospite, non deve mai dimenticarsi di prendersene cura (ad un certo punto Jim, pienamente annoiato dalla false bellezze della Avalon, pianta un verde albero al centro di un salone enorme e triste). Le banali ma decisive imperfezioni dell’astronave, infine, sono il frutto della superficialità umana che cresce proporzionalmente al migliorare della tecnologia a cui ci affidiamo sempre più, spesso dimenticandoci, a carissimo prezzo, chi ne è l’artefice.