Paterson è il titolo del poema epico di William Carlos Williams, grande poeta americano. Ma è anche il nome di una piccola città del New Jersey e il nome del protagonista di questo film, a sua volta fan del libro di poesie di Williams e lui stesso poeta. Le coincidenze e i rimandi non sono un caso nell’ultima pellicola di Jim Jarmush. Pellicola che, pur nello stile minimalista e ironico a cui ci ha abituato il regista, sembra stavolta pura astrazione visiva, perfetta fusione tra “forma” e “sostanza” cinematografica e al tempo stesso come un quadro affascinante e interessante sull’esistenza dell’uomo, non soltanto del protagonista: un ritratto agrodolce, come in bianco e nero (i colori preferiti dalla moglie di Peterson) ma anche molto concreto di una quotidianità ordinaria e immobile, immersa in uno stato di eterna sospensione o circolarità (come i cerchi che sua moglie dipinge) che cerca sfumature e significati persino dove non dovrebbero esserci. Queste sfumature fanno la differenza e sono dettate però dal ruolo che assumerà la poesia. Peterson, interpretato da Adam Driver (Driver, altra coincidenza, vuol dire guidatore) fa l’autista di autobus; è un individuo sereno, tranquillo, umile, innamorato della moglie Laura, ed è immerso in una quotidianità fatta di armonia e cose semplici, di rituali e prevedibilità, scandite da malinconica bellezza ma anche da profonda tristezza. Tra meraviglia e afflizione, a trovare la rima interna tra le cose, a far uscire un senso da esse, sarà proprio la poesia. Per il protagonista essa è tutto, molto più che passione o inclinazione personale, è ispirazione, è spinta vitale, è luce e forza. E’ questo suo talento a regalargli uno sguardo acuto e sensibile sul mondo, a trasfigurare la ripetitiva e catatonica realtà in cui vive in qualcosa di idilliaco, dolce e accettabile. E’ l’unico modo per gustare un’esistenza altrimenti indigeribile. Il regista declina in versi lo scorrere del tempo, delle sensazioni e delle emozioni, dei sentimenti e delle riflessioni, fissati in un bacio, in un’azione, in un sorriso, in uno stato d’animo, in uno sguardo. Tutto e tutti passano per una messinscena contemplativa attenta ai dettagli, gli stessi (visivi, uditivi, sensoriali) del protagonista pronto a scrivere parole su fogli bianchi, pronto ad accettare persino la rottura della routine quotidiana nelle inaspettate variazioni destabilizzanti, viste però come un disordine necessario per maturare. In lui c’è un senso di sospensione: quella di quando ci si appresta a dialogare con la complessità sfuggente della realtà. E’ la magia del film, il suo farsi poesia, trattando questa come soggetto e oggetto. L’opera non solo si basa su una materia difficile come la poesia, ma soprattutto trasmette lirismo; c’è materia poetica sia nella sceneggiatura, sia nella forma filmica che continuamente richiama, rimanda ed evoca quest’ultima sfruttandone i propri elementi linguistici, come ad esempio le figure retoriche (anafore, ripetizioni, metafore, allegorie, ecc.), le potenzialità tematiche, le punteggiature artistiche, il processo creativo ed interpretativo della realtà. E’ un tipo di cinema raro, audace, prezioso, che riesce nel suo intento e che come le sue poesie non esplica traduzioni, ma solo una sospensione dal giudizio, e un invito a guardare con gli occhi avidi, curiosi e accomodanti del protagonista, vero alter-ego del regista, il senso e il non-senso dell’esistenza, accogliendone il mistero e il suo aspetto più vitale…
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