Louis (Jason Clarke) è un dottore in burnout, provato dal duro lavoro nel pronto soccorso di una grande città e dai continui traumi a cui ha assistito. Si trasferisce quindi con la moglie Rachel (Amy Seimetz) e i figli Ellie e Gage in un piccola cittadina del Maine, in una casa alle cui spalle sorge un grande bosco. Lì si trova un cimitero degli animali, ma oltre un cumulo di legname c’è un antico luogo sacro indiano dove chi viene seppellito non rimane sottoterra. È il vicino Jud Crandall (John Lithgow) a mostrare questo posto a Louis, per salvare dalla morte il gatto della piccola Ellie, che però torna con un carattere completamente diverso, molto più aggressivo…
Pet Sematary, seconda versione cinematografica del romanzo omonimo di Stephen King del 1983, che fa seguito a Cimitero vivente diretto da Mary Lambert nel 1989, porta la firma di un duo di registi, Kevin Kolsch e Dennis Windmyer, che hanno tratto dalle pagine del Re un film aderente più all’economia dell’horror di oggi che al testo originario. Una rilettura che non teme di omaggiare a chiare lettere il film di trent’anni fa (con al suo attivo anche un sequel apocrifo), facendo però attenzione, allo stesso tempo, a non disperdere il potenziale di un incubo al contempo umano e animalesco, che a detta di King è la storia che è tornato a perseguitarlo maggiormente nelle proprie fantasie (al suo interno c’era, fin dal principio, molto di “autobiografico”).
Il Pet Sematary del 2019, com’è noto fin dal trailer e dal lancio promozionale, sostituisce il punto di vista del piccolo Cage a quello della sorella maggiore undicenne, Ellie, interpretata dalla giovanissima ma già molto dotata Jeté Laurence, i cui occhi candidi e insieme feroci colpiscono davvero nel segno: una scelta di campo molto forte che dà al film un taglio di genere decisamente diverso, più matriarcale e intimamente femminile di quanto non fosse il romanzo. Se la devozione rispetto al film della Lambert pone Pet Sematary in scia alla precedente trasposizione, quest’elemento di novità contribuisce a dargli una risonanza autonoma e delle vibrazioni che di questa storia, fino a questo momento, non erano state ancora esplorate.
Del cimitero degli animali di King sopravvive la natura tribale, ancestrale, quasi rituale. Il fascino artigianale dei film precedenti cede il passo a qualcosa di più ragionato e complessivamente più glaciale, che reca su di sé il segno dei tempi e la tendenza oggi diffusa a razionalizzare i conflitti familiari e le ricadute metaforiche e sociali di ciò che si racconta, sempre e comunque. Un atteggiamento ben evidenziato dalla scelta di far eseguire sui titoli di coda il celebre brano dei Ramones, Pet Sematary (all’epoca candidato ai Razzie Awards, anche se incredibile a dirsi col senno di poi) agli Starcrawler, che ne realizzano una cover più ovattata nelle atmosfere e nella vocalità, più sognante e smorzata.
Girato in Canada e non nel Maine tanto caro a King, e forte delle proprie prerogative fin qui elencate (cui si aggiungono atmosfere nebbiose, voci fuoricampo, infernali derive lontane da ogni chirurgica scientificità), Pet Sematary all’esplorazione dei luoghi preferisce il focus sui personaggi in campo, sulle forze oscure e temibili che stanno dietro le loro scelte. Nel fare ciò si prende i suoi rischi e le sue libertà, in un processo di appropriazione che, al netto dei jumpscare e degli snodi visivi più intuibili, ha spalle larghe a sufficienze per portare avanti un proprio discorso tematico e per colpire nel segno con più di uno spunto d’interesse.
A emergere in modo particolare, connotata com’è da tensioni raggelanti, è soprattutto la componente soprannaturale della storia: una dimensione che soprattutto nel secondo blocco della sceneggiatura di Jeff Buhler (The Prodigy – Il figlio del male), molto diverso dal primo, trova spiragli a sufficienza per avvicinarsi sottilmente progressivamente allo spettatore. Con passo inquieto, circoscritto, felpato. E manco a dirlo, dannatamente felino.
© RIPRODUZIONE RISERVATA