Kang-do (Jung-jin Lee) riscuote crediti per conto di un usuraio. Obbliga i debitori a sottoscrivere una polizza su braccia e gambe, e se non pagano li rende storpi: il rimborso assicurativo è il suo saldo. Nella vita solitaria che conduce, un giorno irrompe una donna più grande (Min-soo Jo), che afferma di essere sua madre e inizia un faticoso percorso di riavvicinamento, apparentemente indifferente alla brutalità del ragazzo. Kang-do arriva addirittura a violentare la donna per mettere alla prova le sue parole. E tuttavia, dopo l’iniziale diffidenza, l’aggressione e i dubbi, il rapporto si spinge tanto in là che la situazione si ribalta, e il ragazzo comincia a vedere la sua esistenza sotto una luce diversa.
Ritorno alla fiction narrativamente strutturata – quasi classica – per Kim Ki-duk, dopo la parentesi auto-documentaria e luttuosa di Arirang (una sorta di film-espiazione, in cui il regista raccontava la propria depressione) e il piccolissimo road-movie Amen. L’autore coreano gira sempre in tempi ristretti, stavolta un mese scarso, e con poche camere – due, una per sé e una per il direttore della fotografia -, continuando a intendere il gesto registico come l’espressione semi-controllata del proprio stato d’animo: una specie di momentanea stasi, una concrezione dell’inquietudine. Il film è potente, diretto ed evocativo, pur rinunciando all’estrema sperimentazione delle ultime opere in favore di una storia che non è esagerato definire thriller (c’è perfino un colpo di scena!).
Lo stesso regista parla di cinema commerciale – per quanto commerciale possa definirsi il suo cinema scabroso e perturbante -, in un’accezione non negativa che comunque non avrebbe ragione d’essere: come nel caso dei suoi film più belli – da Ferro 3 a La samaritana – il filo del racconto, ben distinguibile, trattiene l’attenzione sui temi che gli sono più cari: la necessità del sacrificio, il dolore come rito di passaggio, la possibilità di cambiare la propria storia e quella altrui solo attraverso atti definitivi e in qualche modo simbolici.
Percorso da un’iconografia ambigua, che sprofonda nella sessualità le premesse religiose attraverso la mediazione della storia dell’arte, Pietà segna un rassicurante assestamento delle malinconie di Kim Ki-duk, in perfetto equilibrio tra ispirazione e intrattenimento. Continuando comunque a spingere sull’idea di una morale fluida, sfuggente, ma definitiva, e capace di regolare il mondo. Sulla raffigurazione di un destino che non lascia scampo.
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Mi piace:
La potenza visiva e narrativa, l’universalità dei personaggi e della storia, il pathos che richiama la tragedia greca.
Non mi piace:
Il regista rinuncia alla sperimentazione delle sue ultime opere in favore di un linguaggio più comprensibile che si può inquadrare facilmente nel genere thriller.
Consigliato a chi:
Ama il cinema di Kim Ki-duk e a chi è curioso di scoprire il film premiato a venezia.
Voto:
4/5