“Pietà” (2012) è il diciottesimo lungometraggio del regista sudcoreano di Kim Ki-Duk.
In un alternarsi di foschie e lucide follie ancestral-mente forvianti e in spaventi reconditi di sguardi sfiniti, il lirismo di Kim Ki-Duk è triturante tra lanci impetuosi di rapporti carnali e miagolii inespressi di appartamenti alveari in un condensato di miseria umana e di lavori nascosti. Dietro a finestre opache, vetrate impolverate, saracinesche chiuse a metà, botteghe oscure, oggetti cadaverici si snoda una vita ricattatoria e uno smercio di denaro. Peraltro i prestiti usurai si bevono le assicurazioni con invalidità quasi agognate. E di schifezza quotidiana ogni respiro non ne può più.
Con un ricamo da opera e da teatro dell’assurdo, il gioco durissimo è uno spettro silenzioso e senza sconti. La malavita si antepone a tutto: alla dignità, alla legge, alla affabulazione e al destino. Gli sguardi si annidano nella pietà umana che non conosce più segno di conciliazione e tanto meno di redenzione. La Pietà in alto, segno dell’abbandono nelle braccia della Madre, riscalda teneramente la vita ma si scontra con il muro (chiuso) di una morte terrena già pronta nelle gesta di ognuno.
La masturbazione umana s’abbandona nella solitudine di ciascuno e di essa s’imbatte nel vuoto di una casa abbandonata. In un letto dormitorio di incubi si incontra la crudeltà e i suoi sogni smantellati, il sangue e i suoi rivoli infatuati: non c’è ne per nessuno nel sesso consolatorio e cruento, nello schiaffeggio sacrilego e nell’anima rinchiusa. Sono i milioni e milioni di denaro sporco che accende l’immonda vita di una donna (che dice di essere madre) e di un figlio (che mai crede di aver conosciuta qualcuna con il nome di madre). La Pietà è lì a circondarci mentre il pietismo fuori luogo porta alla morte di ciascun pensiero.
Gang-Do (Lee Jung-Jin) è uno strozzino che tra uno sbadiglio e un passo-virile, uno sguardo feroce e una riscossione gestisce il potere (di altri) in alcune vie cittadine dove miserevolmente si va avanti. E’ una donna ad entrare nella sua vita dicendo di essere sua madre (Jo Min-Su) che scombussola ogni suo movimento. I loro incontri quotidiani sono la chiave di scontro tra Gan-Do e i suoi ‘succhia-soldi’. Tutto senza sconti: in un truculento mondo di sensazioni e corporee e mortifere (mentre il denaro dischiude ogni gesto di felice apparenza). Un amore senza vita e un odio senza morte.
“Voi siete i bastardi… che cercate soldi…e non potete restituire”: lapidario e infuriato. Così il parlare del ragazzo che ai suoi ‘clienti’ non dona assolutamente (e ci mancherebbe) mai una virgola di un gesto; si compiace a mille in un drammaturgia-moderna di scarno orizzonte e di colori mestamente autunnali. La tomba della Madre, la vita del figlio e il destino di un silenzio. Si incontrano in un salto nel vuoto mentre un palazzo scheletrico fa da paciere tra il perdono di una donna e la disgrazia del denaro. Gli allunghi dal buio delle inquadrature su Gang-Do che s’allontana tra le baracche e le viuzze sono quadri disgiunti dallo sguardo vitale di uno spettatore assente mentre la donna s’insinua tra le cornici inermi del fuoco di una madre mai incontrata. Sono sempre vicini ma lontani in un oblio perdurante mentre una morte scava le carni di persone svuotate.
“Il denaro è la vita… è la morte”. Ogni destinazione permea qualsiasi fare; e non basta buttare carta da scambio per una visita di (s)cortesia nel cercare il proprio passato (il ragazzo cerca sempre una madre che non vede da trent’anni). Si vantava Gang-Do di storpiare i suoi ‘operai’ dei soldi ma da adesso in poi nessuno vuole riconoscerlo e tutti vogliono farlo fuori. Persino un bambino (quando vede il padre minacciato dallo strozzino) s’avventa contro di lui con una matita a mo’ di punteruolo. E un abbraccio col padre di stile neorealista (ma qui il dramma in scena s’indigna senza falsi e una musica scarna limita gli atti di scena e i cambi di registro).
Il sentore di un finale insanguinato lascia una scia nel passato su una mala incancrenita; con un gesto disperato-ante il ragazzo disegna il suo vuoto vitale mentre un automezzo (a luci spente) si perde nelle bretelle stradali di una città soggiogata e di un futuro quanto mai da scardinare. E la notte ammanta ogni vita mentre il buio dello schermo (con toni accesi da melodramma) annulla il respiro della vita vissuta e lo spettatore si perde nell’animo (mortifero) della direzione (mentre il ‘Signore, pietà” rigurgita di eccesso come il film vuole essere con un senso di appagamento).
Si deve dire che le interpretazioni di Lee Jung-Jin e Jo Min-Su sono folgoranti e di efficacia purissima. Una menzione speciale alla fotografia: offuscata, tetra, scarna e dileguante negli interni.
La regia di Kim ki-Duk è di una semplicità rara e prestigiosa.
Voto: 9 (quando la poesia s’addentra nelle strettoie semisconosciute della viva-morte).