Antonio (Cristiano Caccamo) ha trovato in Paolo (Salvatore Esposito) il grande amore della sua vita e in un impeto di sentimento gli propone di sposarlo. Non resta allora che tornare in Italia (i due vivono a Berlino) per informare i genitori di Antonio: la mamma Anna (Monica Guerritore) e il papà Roberto (Diego Abatantuono), sindaco progressista di Civita di Bagnoregio, gioiello laziale soprannominato “la città che muore”, aperto e tollerante nell’accoglienza di migranti (e turisti) ma sorprendentemente omofobo quando ci sarà da fare i conti con i gusti sessuali del figlio…
Alessandro Genovesi (La peggior settimana della mia vita, Soap Opera, ma anche la sceneggiatura di Happy family per Gabriele Salvatores) ha confezionato una commedia sulle nozze omosessuali che non può fare a meno di confrontarsi con qualcosa di intrinsecamente italiano: la famiglia e i suoi contraccolpi. «Facile fare i gay a Berlino», ben più difficile imporre la propria diversità quando c’è di mezzo il perbenismo conformista del Belpaese, sintomaticamente arretrato sui diritti civili a tal punto da dover scomodare il teorema del babbuino enunciato dal personaggio di Abatantuono: se il mio vicino si compra un babbuino buon per lui, purché non finisca in casa mia.
Sul tema delle unioni civili, entrate in vigore nel nostro paese solo il 5 giugno 2016 con la legge Cirinnà, c’è ancora tanto da lavorare nell’immaginario italiano e il film di Genovesi prova ad affrontare il tema dei pregiudizi collettivi e dell’omofobia sociale come condizione psicologica ma perfino emotiva («Se siete felici voi non è detto che debba esserlo anch’io», chiosa il pater familias) col candore folcloristico e la vena colorata e frizzante di tanta commedia di casa nostra, ancorata a stereotipi e divisioni regionali (il milanese Abatantuono, il napoletano Esposito, il barese Abbrescia e via discorrendo).
Il tentativo è nobile, la resa simpatica e piacevole, distensiva e gradevole, anche se la scrittura delle gag e il lavoro sulle singole situazioni di sceneggiatura è scombinato e un po’ stralunato proprio come l’approccio alla tematica principale del film, che qua e là può lasciare confusi e sbalestrati non tanto per le presa di posizione, sacrosanta e cristallina, ma per la troppa carne messa al fuoco.
I personaggi più o meno di contorno che infittiscono il quadretto abbondano (c’è gloria anche per il wedding planner di Real Time Enzo Miccio nei panni di se stesso) ma sotto la superficie degli eccessi, che scantonano perfino nel musical come versione gay del teatro – il film è ispirato allo spettacolo di Broadway My Big Gay Italian Wedding di Anthony J. Wilkinson – il tono è sincero, di tanto in tanto umanistico e mai farsesco e caricaturale, che per un film che lavora sul queer di petto e senza censurarsi è sempre un ottimo risultato.
A convincere in positivo, al netto di qualche eccesso patinato e pubblicitario nella confezione, è sopratutto il comparto di attori e caratteristi: fatta eccezione per Monica Guerritore, che forse è un po’ sfasata e fuori tono (la gravità stentorea del suo personaggio, per quanto rigido e pieno di chiaroscuri, forse si prestava più all’immobilismo di una pièce teatrale che a una commedia brillante), il resto è senz’altro convincente.
Dalla sciroccata canterina e disneyana di Diana Del Bufalo all’ottimo, misurato Salvatore Esposito, sempre più accorto e maturo anche lontano dal Genny Savastano di Gomorra – La serie, passando per il solito Diego Abatantuono, sornione di mestiere, e soprattutto per il personaggio più interessante in assoluto, il Donato di Dino Abbrescia: un uomo fragilissimo e depresso, allontanato dalla famiglia perché beccato a travestirsi da donna; figura complessa e sfaccettata, autenticamente e fieramente LGBT, che fa piacere ritrovare all’interno di una proposta comica italiana e mainstream, che di solito, su simili sfumature, è molto più tagliata con l’accetta.
Mi piace: l’equilibrio nel lavorare sull’immaginario e le psicologie dei personaggi, che fortunatamente non degenerano mai nella farsa
Non mi piace: gli scombussolamenti di una sceneggiatura a tratti troppo caotica
Consigliato a: chi è in cerca di una commedia italiana fresca e leggera, in cui la gag si stempera nella riflessione sui diritti, l’integrazione, la diversità sessuale, l’accoglienza
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