Qualcosa nell’aria mette in scena il Maggio francese e il periodo immediatamente successivo (siamo nella Parigi del 1971) a quell’incredibile stagione, che in Francia significò 30 giorni di sciopero totale e di accesi dibattiti sociali e politici. Gioventù e rivoluzione. Olivier Assayas descrive questo periodo da una prospettiva assolutamente personale, che si traduce nel vagheggiamento nostalgico di un momento assolutamente unico per se stesso e per l’intera società. Non è tanto e non solo la propria giovinezza quella rimpianta dal regista di Carlos, ma quella fase topica della vita di un individuo in cui fibrillano tutte le possibilità e le idee, in cui si è aperti a tutte le esperienze. Quel momento in cui ci dovrebbe consumare il desiderio di stravolgere il mondo, in cui si è certi che utopie e i desideri prenderanno forma.
Il film non si focalizza unicamente sulla dimensione politica, sugli stravolgimenti che avvennero nella struttura sociale, pur tenendoli sempre ben presenti, ma offre uno spaccato generazionale potente e lirico insieme, concentrandosi soprattutto sull’importanza delle scelte. Lo fa raccontando il percorso di maturazione di un gruppo di liceali (tutti attori non professionisti tranne la bella e sensuale Lola Crèton di Un amore di gioventù) attraversati dalla carica elettrica di un vitalismo irrefrenabile, convinti che la rivoluzione sia inevitabile e necessaria, che l’anarchia possa essere l’unica risposta concreta alle pressioni e alle ingiustizie istituzionali. Battersi contro i celerini, diffondere le proprie idee attraverso graffiti e pubblicazioni clandestine, sfidare i movimenti studenteschi avversari: non c’è battaglia che questi giovani non siano pronti a combattere in nome dell’Idea. E Assayas sembra volerne catturare le corse, i salti, quella grinta che fa loro credere di essere fautori del proprio destino.
La macchina da presa segue in particolare il personaggio del giovane Gilles, curioso del mondo e sempre pronto a un utilizzo sistematico del dubbio, capace di mettere in discussione la rivoluzione maoista e di non farsi coinvolgere dal collettivismo e dalle esperienze lisergiche così in voga all’epoca, perché convinto di poter realmente incidere sul mondo attraverso la sua arte e il suo cinema. Una sorta di alter ego del regista stesso, che ha il dichiarato intento di ricordarci cosa significava un tempo essere giovani: sentire bruciare dentro il fuoco delle possibilità. Uno scossone che il regista vorrebbe dare ai ragazzi d’oggi. Uno spaccato generazionale scrupoloso, ma non documentaristico, dove anzi prevale il lirismo delle immagini e una dimensione estetica molto forte (a volte stucchevole), che ha il potere di farci tornare indietro nel tempo.
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Mi piace: la regia raffinata, la ricostruzione storica impeccabile, il vitalismo che attraversa come una scarica elettrica il film
Non mi piace: spiazza talvolta la leziosità del protagonista rispetto a un incipit al fulmicotone.
Consigliato a chi: a chi rimpiange il ’68 per averlo vissuto e a chi per non averlo fatto
VOTO: 4/5
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