Una scrittrice (Emmanuelle Seigner), dopo il successo travolgente del suo ultimo romanzo, è preda di un blocco creativo che pare non offrirle via d’uscita. Delle lettere, in particolare, la accusano di aver cannibalizzato il suo vissuto familiare, dandolo in pasto al pubblico in maniera vergognosa e discutibile. Un’ammiratrice, Elle (Eva Green), fa la sua conoscenza e tra le due si instaura un rapporto sempre più sfaccettato e seducente, che le porta a stabilire una sintonia alle cui spalle si celano però non pochi lati oscuri.
Roman Polanski agita per l’ennesima volta gli echi hitchcockiani della propria ispirazione cinematografica e si concentra su un altro rapporto masochistico, nel quale la simbiosi tra i personaggi in campo, esattamente come negli ultimi suoi film, Carnage e Venere in pelliccia, assume col passare dei minuti dei contorni sempre più spettrali e inquietanti. Una storia di fantasmi e, idealmente, anche di vampiri (perché si tratta sempre di succhiare il sangue all’altro, al proprio doppio, alla nemesi di turno), che stavolta traspare direttamente e senza mediazione alcuna dalla pagina scritta e dalla fascinazione del regista per il dispositivo letterario.
Una linfa, la letteratura anche teatrale, dalla quale sono passati praticamente tutti gli ultimi lavori di Polanski e che nel caso di Quello che non so di lei scaturisce dal romanzo omonimo di Delphine de Vigan. Un’opera grazie alla quale il cineasta polacco lavora ancora una volta sull’adattamento di un testo come territorio privilegiato per sviluppare, parallelamente, un’idea raffinatissima e tagliente di thriller psicologico e destabilizzante: ancora un volta un libro racconta la storia di un altro libro, come ne La nona porta e L’uomo nell’ombra (il secondo, in particolare, diceva molto sui ghost writer delle celebrità mediatiche e politiche come entità fantasmatiche, attraverso il personaggio di Ewan McGregor).
Dopo il gran film di Verhoeven con Isabelle Huppert passato in concorso a Cannes nel 2017, anch’esso a ridosso della fine del festival, nelle battute conclusive dell’edizione del 2018 ritroviamo, fuori concorso, un’altra Elle, vettore femminile manco a dirlo puramente letterario incarnato da Eva Green. Peraltro in un nuovo film sulla manipolazione e sull’integrità dell’immagine pubblica e privata, familiare e sociale di ognuno di noi: un tema, quello del tritacarne mediatico, che Polanski conosce benissimo per via dei suoi secolari guai con la giustizia e che qui affronta di petto attraverso un personaggio, quello della musa e moglie Emmanuelle Seigner, che vede la propria icona frantumarsi ed essere messa in crisi. Una dissoluzione che corrompe, di pari passo, anche il suo equilibrio psicologico ed emotivo.
ll rispecchiamento tra le due donne è continuo e tambureggiante fino ad arrivare alle soglie dello scambio di ruolo, ed era inevitabile che un regista come Polanski si interessasse a una storia in cui la morbosità è sempre una questione di punto di vista, di sguardo e perfino di soggettiva: una ripresa che l’autore polacco utilizza in modo sempre perturbante, alla maniera del suo modello supremo Alfred Hitchcock, per restituire la tensione latente ed erotica che attraversa gli ambienti e gli spazi, mostrati apparentemente in maniera illustrativa e distaccata.
Ma il filo tesissimo, anche di natura sessuale, che lega il personaggio della Green a quello della Seigner non può fare a meno di spezzarsi ed entrare in crisi quando realtà e finzione collidono e finiscono col sovrapporsi l’una sull’altra, provocando fratture continue e un flusso verboso che si affastella e si confonde: una vertigine angosciante e accecante, sepolta sotto la coltre della parola, che per la prima volta nel cinema polanskiano unisce due donne in un lungometraggio (per completezza va citato anche il corto Greed, con Michelle Williams e Natalie Portman).
Tale cortocircuito di reale e immaginario, che prende una piega via via sempre più affilata e insanguinata, è probabilmente l’aspetto più interessante dell’ultimo film di Polanski, dove la formula evocata fin dal titolo originale, D’après une Histoire Vraie (da una storia vera), ha una valore perfino ironico e paradossale. Perché dopotutto i dispositivi digitali che mediano la nostra percezione, oggigiorno, ma anche le storie e le molteplici forme narrative nelle quali quotidianamente ci immergiamo, sono costantemente tese all’alterazione e alla manipolazione del senso e del vero. O, perlomeno, alla loro distorsione e rifrazione.
Da questa suggestione muove Polanski per instaurare intorno alle sue magnetiche e sensuali incarnazioni femminili il proprio valzer macabro di mistero e prevaricazione, coadiuvato dal regista Olivier Assayas in sede di sceneggiatura (i due, guarda caso, si sono scambiati le idee per la trasposizione via Skype). Un cineasta che con i suoi ultimi due film, Sils Maria e Personal Shopper, non si è sottratto dal mostrare le crepe e gli spettri dell’universo 2.0: ombre che ritornano puntuali anche qui, disseminate in dialoghi di stampo letterario eppure inermi, paralizzati sulla soglia degli avatar digitali e comunicativi di oggi, nei quali la mano di Assayas è presente a più riprese e puntualmente, sommessamente riconoscibile.
Il film è tutto qui, nella superficie teorica, forse risaputa, cadaverica e per questo non esaltante né particolarmente accattivante, di quest’evidenza.
Mi piace: la finezza morbosa della costruzione letteraria, psicologica, erotica
Non mi piace: l’eccessiva verbosità della sceneggiatura e il discorso sul digitale, fascinoso ma, nelle forme sviluppate, di certo non inedito
Consigliato a: gli amanti più attenti e consapevoli di Polanski, che vi ritroveranno dentro tutti i suoi demoni, dal primo all’ultimo
Voto: 3/5
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