Race: Il colore della vittoria: la recensione di Jole de Castro
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Race: Il colore della vittoria: la recensione di Jole de Castro

Race: Il colore della vittoria: la recensione di Jole de Castro

Chissà perché quando un film si ispira a una storia vera, di quelle che mettono i brividi addosso, deve essere sempre sottovalutato. Come se il fatto di avere a che fare con una vicenda umana eccezionale, come quella che ha ispirato il bellissimo “Lone Survivor” di Peter Berg, rendesse il compito del regista meno arduo e lo obbligasse, pertanto, a stupirci con “effetti speciali”.
La storia narrata è quella vera dell’atleta afroamericano Jesse Owens che diventò un campione vincendo ben 4 medaglie d’oro ai Giochi Olimpici del 1936 tenutisi a Berlino, durante il periodo “caldo”della dittatura nazista. Il velocista vinse a dispetto dell’ideologia razzista e dei pregiudizi del Reich, e fu snobbato anche dal Presidente Roosvelt, che in piena campagna elettorale, ebbe paura di mostrare eccessivo entusiasmo nel celebrare la sua vittoria, generando un possibile malcontento negli stati del Sud.
Ebbene, quello di Stephen Opkins è un film di impianto classico, che carpisce l’attenzione fin dalla prima scena, senza sofismi o esercizi intellettuali, e senza costringerci alla fatica immane cui ci hanno abituato pellicole sia pur pregevoli quali “La grande scommessa” o “Il caso Spotlight”, che se uno ha avuto una giornata pesante sulle spalle o vive una vita anche vagamente complicata hanno lo stesso effetto di un peperone fritto sullo stomaco. Bel film, dunque, senza effetti speciali e senza il desiderio di stupire a tutti i costi. Un po’ troppa retorica, forse ma per far commuovere il pubblico ci vuole il sogno, si sa, e per far sognare bisogna spingere l’acceleratore sul cuore. Semplicità, dunque, e sobrietà. Cuore e sentimenti, niente di più. E naturalmente, interpretazioni di livello, prima fra tutte quella dell’ottimo Jeremy Irons, sempre perfettamente in parte, così come quella dell’altro veterano presente nella pellicola, William Hurt, un po’ sacrificato forse ma sempre e comunque credibile o quella dell’esordiente Stephan James, che non sfigura affatto nel ruolo del protagonista o di David Kross (indimenticabile protagonista di “The Reader”) e Carice Van Houten (eroina del mitico “Black Book”) nei panni della Riefensthal, o infine di Jason Sudeikis, nei panni dell’allenatore, normalmente avvezzo a ruoli più brillanti, e che qui appare equilibratissimo e mai sopra le righe.
Bellissima la storia d’amicizia, peraltro reale, fra Owens e Carl “Luz” Long, perfetto antagonista sportivo, bellissima la storia in sè, così significativa in un momento come quello che viviamo, in cui tanto si parla di razzismo e integrazione. Una storia da Oscar anche e soprattutto perché la regia non risulta ingombrante rispetto ad essa, così come quando un vestito di alta sartoria riesce a valorizzare un’attrice senza oscurarne la bellezza.

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