Re della terra selvaggia: la recensione di Gabriele Ferrari
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Re della terra selvaggia: la recensione di Gabriele Ferrari

Re della terra selvaggia: la recensione di Gabriele Ferrari

Re della terra selvaggia è un film che si racconta in una frase («Una bambina vittima di un’inondazione deve abbandonare la sua casa in cerca di un nuovo rifugio») ma rimane nel cuore per tutta la vita. È un film che, anche in un panorama – quello del cinema indie statunitense – dove la voglia di osare è di casa, spicca per coraggio e lucidità di visione. È un film su innocenza e peccato, su infanzia e maturità, sulla natura, sull’uomo e sulla natura dell’uomo, fatto di dualismi e contrasti stridenti pur mantenendo la coerenza e la chiarezza proprie delle idee più semplici (ed efficaci). È un capolavoro, o il migliore film dell’anno, come la penso qualcuno all’Academy? Come sempre in questi casi, probabilmente no, anche se è facile farsi offuscare vista e giudizio dalle lacrime che, inevitabili, cominceranno a scorrere sui titoli di coda. Una cosa Re della terra selvaggia lo è di certo: indimenticabile.

La storia è quella di Hushpuppy (Quvenzhané Wallis, la più giovane candidata agli Oscar di sempre), cinque anni, riccioli ribelli e un urlo animalesco sempre pronto a esplodere nel petto – perché animalesca, nel senso più puro e non adulterato del termine, è lei, e la sua famiglia, e i suoi amici, e la sua casa. Hushpuppy vive nel Bathtub, la “vasca da bagno”, bacino paludoso della Louisiana più profonda, tagliato fuori dal mondo di cemento e acciaio da una gigantesca diga; lo scopo è tenere a freno le acque del mare che prima o poi, inevitabilmente e inesorabilmente, si solleveranno a causa del riscaldamento globale, spazzando via i pochi che si ostinano a vivere allo stato di natura invece che arrendersi alla civiltà. «Quando uno di noi si ammala lo facciamo tornare alla natura, quando uno di loro si ammala lo attaccano a un muro con dei tubi»: la filosofia di Hushpuppy e del padre Wink (Dwight Henry, professione panettiere, reclutato dal regista quasi per caso) si riassume in questa frase, e il viaggio di formazione della piccola – inevitabile che la temuta “tempesta perfetta” si abbatta sul Bathtub e dia avvio agli eventi – è più che altro una fuga da un mondo fatto di catene, visibili o invisibili che siano.

La celebrazione del “buon selvaggio” di rousseauiana memoria e l’imprevista deriva fantasy (lo scioglimento dei ghiacci porta con sé il risveglio di immense creature preistoriche) potrebbero apparecchiare la tavola per una fiaba bucolica in cui giusto e bello si sovrappongono e la morale è insita (e malcelata) nell’estetica stessa della pellicola – pensate ad Avatar per capire cosa intendiamo. È qui che l’esordiente Benh Zeitlin sorprende e spariglia le carte: un’ora e mezza di camera a mano, immagini sgranate, a tratti confuse, fotografia virata al marrone e una generale sensazione di sporcizia e marciume accompagnano ogni singola sequenza, sia che Hushpuppy corra nei boschi sia che si corichi nel suo giaciglio di fortuna. Il Bathtub non è un luogo gradevole alla vista né, si immagina, all’olfatto o all’udito: la bellezza sta negli occhi e nelle parole di una bambina che lì e nata e vissuta e che preferisce sbranare un’aragosta a mani nude insozzandosi della sua polpa che vivere costretta da quattro mura di cemento. Non è apologia né denuncia, e in questo Re della terra selvaggia è un film di un’onestà cristallina: quello che interessa è il punto di vista, non il giudizio. L’innocenza, non la polemica.

Che poi il primo a non essere innocente (anzi) sia il regista è un altro discorso: Zeitlin scrive e dirige con la sicumera di un veterano, uno che non si premura di usare anche i trucchi più sottili per trascinare lo spettatore nel vortice e invitarlo (costringerlo?) alle lacrime. Non che Re della terra selvaggia sia un film furbo: piuttosto immodesto e sfacciato, violento e volutamente spudorato – ci vuole coraggio a gettare una bimba tra le braccia di una prostituta che lei crede essere sua madre. A tratti viene da pensare «sta esagerando», anche sul finale, soprattutto sul finale; poi le lacrime cominciano a scorrere ed è istantaneamente chiaro che ad avere ragione era il film, non il nostro approccio freddo e razionale. È un bel modo di avere torto.

Mi piace
La piccola protagonista entra nel cuore e non ne esce più. La regia di Zeitlin è coraggiosamente estrema. La storia, nella sua semplicità, dice parecchie cose importanti.

Non mi piace
Una certa tendenza al melodramma pilotato che traspare in più di una sequenza.

Consigliato a chi
Ha voglia di cinema diverso e indimenticabile.

Voto: 4/5

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