Ready Player One: la recensione di loland10
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Ready Player One: la recensione di loland10

Ready Player One: la recensione di loland10

“Ready Player One” (id., 2018) è il trentaduesimo lungometraggio del regista-produttore Steven Spielberg.
Prendere o lasciare verrebbe da dire: per chi conosce (relativamente) poco il cineasta di Cincinnati si trova spiazzato o forse frainteso, per chi conosce (da sempre) tutta la sua produzione può rimanere estasiato o forse lasciato in disparte. Non è un film (nonostante la schizofrenia ammaliante) fascinoso e lineare. E allora mettersi in posizione, salite sulle montagne russe e lasciatevi andare sull’ottovolante.
E il gioco, che pare tale, non è solo spassoso ma diventa, anche, un metafora grigia e un incubo poco assolato di un sistema di omologazione o di comando imperioso. La ‘virtual-war-halliday’ è solo l’inizio o una fine per chi vuole abbandonarsi-conoscersi nei mondi possibili.
Catapultarsi in un ‘mainstream’ andro-genetico virtualmente reale come un video-drome accanito, e falso per nulla vero di ogni reale triste.
Lezione quasi da avamposto soggettista per un film multicolore che si barcamena tra l’utile e il dilettevole per far strada a giocosi silenzi virtuali come metastasi di un brutto reale chiassoso. È pur vero che ogni inquadratura ne può assomigliare ad un’altra ma Spielberg riesce ogni volta, in ogni istante e in ogni momento di pellicola a guardarlo con assurda meraviglia e ovvietà meticolosa in merito do straniltao e zuccheroso.
Da un libro impossibile da porsi è quasi assurdo da chiarire in immagini figurarsi in una storia logica, è illogico pretendere, o dir si voglia pensare di volere, un excursus da pandemonio tra Columbus e Oasis, tra schifezza e immondezzaio verso virtuale accecante. Grigio fosforo e rimbecillimento candido con metastasi notturne e mega-tetratoniche.
In un futuro mondo dirompente, inutile, depravato e povero, Il grande ritrovo di case fantasma di Columbus è lo specchio di ogni quartiere di megalopoli intristite e vacuamente saporite. Tutti plasticamente vivi, tutti hanno fanno qualcosa, tutti paiono conoscersi con frasi mnemoniche; ecco fuggire da questo cerchio verso il mondo di Oasis dove il bello che nessuno ti conosce, ognuno ha un nome diverso. Per possederlo il lasciapassare e il suo luogo basta gareggiare, giocare, conoscere tutti i personaggi di un’infanzia remota, o quasi, infischiarsene di menzioni sopracitate e affogare nel trambusto ‘fantasmagorico’ dove il reale è infanzia e l’irreale è adulto che si ostina a non crescere mai. I ragazzi, gli adolescenti tirano le ‘cuoia’ ai veterani e al comando: le chiavi del lascito virtuale gioco forza è di qualcuno che vorresti incontrare. ‘Game over’ senza se e senza scuse. ‘Wargame’ (era un gioco da far paura ai potenti, virtual-games è un gioco (massacrante) che i potenti vogliono gestire ad ogni costo (il denaro e il potere…al solito).
I baci reali sono sempre meglio degli abbracci irreali e senza nome. Guardarsi negli occhi, sedersi in poltrona (cult finale) per rivedere il film mentre le guance arrossate hanno fatto finta di oscurarsi.

Dal libro omonimo di Ernest Cline (di Ashland); a Columbus nell’Ohio c’è un quartiere malfamato, con povertà e vita grama, Wade Watts, ragazzo diciassettenne, vuole evadere, vuole contatti non gli basta giocare con i pollici, uno strano occhiale è quello che si prospetta nel presente per immergersi nell’Oasis dove il virtuale è qualcosa di meraviglioso e vuole giocare, vincere sfide, avere le tre chiavi nel mondo ideato da James Halliday. Vuole arrivare al tesoro di Anorak. Ma ci sono potere più forti che vogliono arrivare prima di Wade/Parzival. Nolan Sorrento è li a controllare ogni mossa e contromossa del ragazzo, di Samantha Cook / Art3mis e dei suoi amici. Nomi doppi, scambiati, omaggi, personalità, forze vive e oscure: ogni cosa pare incredibilmente allettante e fintamente persa. Anche se nel mondo reale….la vita (è tutta lenta) è reale.
Un (assiduo) modo di immersione totale dove tutto è ombra di tutto e dove ogni pezzo, figura, quadro, scritta, disegno, vestito, volto e punto è schermo di altro film con senso non di parodia ma di allegria invereconda e di speranza intristita di full.
Quando vuoi compiacerti devi soltanto mettere un’altra moneta per il ‘game over’ continuo , un gioco che sa di avamposto da duello western, rimetti il tasto e va di nuovo in partenza: il cinema sogna se
stesso e ne distrugge le ovvietà di svago, andando dentro ogni set. Da sopra, dentro, indietro, avanti, passatempi e futuro gongolante. Il vero e sul vero falso in un virtuale che sganghera ogni individuo per quasi non parlarsi.
Ecco che Spielberg ci dà dentro come non mai e rovista ogni segno possibile per rallegrarci di cinema- cinema; quando il connubio reale-virtuale, giorno-finzione sembra incerto e improbabile, basta andare oltre il sogno è metabolizzare l’immaginario del tutto intero e su Oasis appare e si manifesta, non solo il pop bello e deteriore degli anni ottanta ma tutto lo script e manifesto degli oltre cent’anni di celluloide. Con Spielberg e il post (non un gioco di parole ma sembra appositamente in logica irriverente) cinema della New Hollywood diventa la metafora completa di un singhiozzo continuo tra un dormiente che non si vuole svegliare è uno sano di mente che stancamente vorrebbe solo addentrarsi nel fausto sogno.
Anche perché vivere sempre (senza sosta) nella ‘schifezza’ di un 2045 pieno di luoghi ammassati, di robot scannerizzati, di discariche permanenti, di posti trucidi, di sporcizia pestifera, di città senza spazi e piene di smog non fa per nessuno. Il virtuale nerd rende di più e fa vivere meglio meno un paio di giorni la settimana (tipo se torniamo ‘reali’ il martedì e il giovedì….).

Ristrutturazione invereconda di una filmografia rigenerante: Steven a oltre settant’anni si mette a capofi(la)tto(in toto), non grazia nessuno e si antepone davanti alla cinepresa (quasi) come confondendosi con i mille rivoli e le interminabili sfaccettature senza uscirne mai. Inventa e reinventa cinema con un summa ad incastri veramente ‘(in)decifr(i)abile’.
Esempio, ove c’è ne fosse bisogno, di cambio, ricambio, nuovo, vecchio, idee e miscugli liberi di volare come soluzioni di sorta di un cinema è praticamente simpatico e nervosamente accattivante. Qualcuno ha scritto, ‘nel bene e nel male un grande film’: non è che vogliono salire in corsa sul cinema di un certo regista… Non basta dirlo bisogna osservarlo, vederlo, ascoltarlo e palparlo dentro. Un cinema senza chiusure mentali. Per chi segue il regista dalla prima ora è una goduria che rimarrà, per quelli virtuali di oggi…un sentore di una furbastro (forse non riuscita per i detrattori) che cerca spiragli nuovi e ‘claque’ facile. Ecco per chi è ‘spielberghiano da sempre’ nessuna novità, anzi la riprova che il regista di Cincinnati si trastulla a trecentosessanta gradi e ci fa immergere in un cinema che (s)volta (o sembra farlo) senza preamboli e risvolti nel (suo) passato.
A meno che si riabiliti il sentore che il cinema ‘non prettamente’ d’essai (e anche qui si aprirebbe un’ampia parentesi su cosa il cinema dovrebbe raccontare) è grande schermo a tutti gli effetti. O cominciamo a selezionare il gioco che ci piace: tipo 2018 no, 2027 non so e 2045 forse (o all’opposto come si desidera).
Didascalica-mente (che tale non è) un film a-cerebrale, senza congetture vere dove il vizio omologante dell’uomo è quello di essere presente sempre a se stesso. La montagna di denaro che si promette è ‘oltre se stessi’ e ‘oltre la ragione’: è il vizio del comando omnia, totale, del presente degenerato e invivibile (quasi progettato ad altri), del futuro (giocare quasi per costrizione ed evasione da un nulla) e il passato (che torna e ritorna per come gli oggetti tutti e gli ammassi intellettivi hanno ‘indicato’, pensando ad un suggerimento, la ‘storia’ dei confini, dei quartieri totali e di Columbus come ogni altro luogo). Fuggire per tornare, sognare meccanicamente per sapere il nome di un(‘)altro(a).
York…New Hollywood a Columbus dove i ragazzi svegli e con poco lascito al futuro, in un presente deprimente, si costruiscono plasticamente, un nuovo orizzonte, un nuovo nome, un nuovo mondo, un nuovo gioco, un nuovo vigore. E la New Columbus, già vecchia nel 2045, al modernissimo asfittico e l’Anorak incombe dentro i cervelli tutti. Pazzie di ragazzi soli e follie di adulti al ‘game over’.

Un furgone anni trenta per Wade e i suoi amici: è il pacco postale…che arriva a destinazione. Uno scatolone itinerante, fili e prese, voli e assenze. Ultima fermata: le portiere si aprono più volte, una.. due, tre…: tutti vogliono gustare, gli amici, i parenti, i giornalisti, le tv, i poliziotti, …Un arresto, un uomo e un pugno e ‘The Goonies’ (1985 di Richard Donner) arrivano al traguardo.
Spielberg uno e due, questo è il suo doppio, allegro e serioso: tutto vero ma forse, anzi è sicuramente così, non è vero che il cineasta di Cincinnati fa il verso ad un cinema di summa o meglio ad una n cinema che rinasce, tra vampiri e aspirazioni di grandi, da Capra a Ford, da Minnelli a Lean, da Kurosawa a Kubrick , dal cinema degli altri alla New-Hollywood o dir si voglia ancora. Forse è il caso di dire che il cinema ‘spielberghiano’ è a se stante: assemblaggio e immaginario neo-classico di un ragazzo che è diventato adulto per caso. Il mondo dei nerd è arrivato.
E se vogliamo pensare ad un cinema ‘sociale’ in crisi, ad un cinema ‘di contatto’ sfinito: forse le ‘matinee’ rendono l’idea di un grande schermo che si guarda da solo (oggi). Come non pensare (tra i tanti) al film (1993) ‘Matinee’ (appunto) di Joe Dante. E tra i Bee Gees (‘Saturday Night Fever’ -1978- di John Badham) e il vuoto ‘estraniante’ di ‘Videodrome’ (-1983- di David Cronenberg) lo spazio degli ‘avatar’ si compiace dei colori fosforescenti e di contorni allucinogeni. ‘Le Due Torri’ e la montagna degli ‘Incontri Ravvicinati’ si toccano con un involucro encefalo che pare ‘l’Uovo di Pandora’ da distruggere.
Gli omaggi, i richiami, i luoghi, i movimenti e le scritte sono a iosa. Tutto da rivedere dietro e dentro lo schermo. Quasi impossibile contarle. Veramente alcune talmente nascoste che sembrano non esserci. E Spielberg è stato cavilloso nel montaggio per non mettere altro, togliere e aggiustare il tiro per quello da proporre. Il tributo a Stanley Kubrick nei ‘posti’ di Shining (1980) è di rara maestria. E si vuole ricordare la magia del mago Merlino ‘Anàl nathrach, orth’ bhàis’s bethad, do chél dénmha‘ dal film ‘Excalibur (1981) di John Boorman.
Cast di una maestosita illogica e versatile nella baraonda: Tye Sheridan (Wade Watts/Parzival): pare lì per caso e si prende lo schermo senza saperlo; Olivia Cooke (Samantha Cook / Art3mis): contratta e aperta, leggera e sicura con uno scatto da nerd; Mark Rylance (James Halliday/Anorak): alter ego da adulto e da bambino (la stanza e i due insieme da a James e a noi lo specchio di una vita); Ben Mendelsohn (Nolan Sorrento): deciso, cazzuto e fortemente ironico con viso da ricco-imbecille.
Fotografia di levatura improba e strepitosa: oramai Janusz Kaminski conosce la luce da porre e lo sguardo dietro la presa del regista (la collaborazione dura da venticinque anni).
Musiche di Alan Silvestri a dir poco in tema, intelligenti, forvianti, geniali e roboanti. Per i titoli di coda c’è una tripla lettura (per chi scrive): canzone dettata dall’autore del libro e Steven non ci pensa due volte, il lineare rullo delle scritte in un bianco offuscato tipo grandi eventi ricorda ‘1941. Allarme a Hollywood’ (1979 dello stesso regista) e la fascinazione di piatti, tamburi e sinfonica e altre come omaggio a John Williams ami, quasi il cantore sognante di tutta la filmografia del regista di Cincinnati. Chi non alza la mano può stare fuori e non entrare, perché contraddire non conoscendo tutti i suoi film e alcune produzioni, non dico tutte, può stare gentilmente fuori. Dall’uovo trasparente bombardato a dismisura da tutti quelli che amano poco il suo cinema. Naturalmente è una boutade, tutti possono accedere ma è meglio avvertire i cinematografari distratti da troppo irreale. Anche perché il reale è bello… perché è reale. Tutto qui: ‘tutto è più lento qui’ dice Wade a Samantha; per questo un paio di giorni ci bastano (alla settimana).
Regia di Spielberg dirompente, affannosa, elastica, caleidoscopica, rettilinea e avvolgente. Uno Steven ad ampio respiro dove detta il passato in un futuro tutto da decifrare mentre il suo cinema è allungo verso la navicella madre oltre un incontro ravvicinato. Il futuro
Si consiglia le versione originale (rende l’idea, gioiosamente cinema) e in 70 mm. Ma senza pretendere si è visto anche il film doppiato (le voci che segnano il linguaggio).
Voto: 10/10 (*****).

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