Reality: la recensione di loland10
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Reality: la recensione di loland10

Reality: la recensione di loland10

“Reality” (2012) è il settimo lungometraggio di Matteo Garrone.
A quattro anni da “Gomorra” il regista romano si proietta nel mondo dell’(ir)reale tra una puntatina a Orwell e una puntatina al realismo becero e inconcludente di un narcisista del sogno e di un mentecatto del nulla. Ciò che basta credere è crederci fino in fondo in un paese senza valore alcuno dove l’irriverenza non c’è più ad essa è stata saluta e di commiato aggiunto il posticcio inutile dell’invisibile parlare di quello che non si crede più. Ecco che tutti, ma proprio tutti riescono ad assecondare il sogno, il sogno della vita e la vetrina dell’ego delirante.

E ciò che incombe è la demenza in toto e il delirio (infatuato) di un uomo qualunque e di amicizia surriscaldata di protagonismo in ogni buon conto che si rispetti. Quelli che si siedono al tavolo in un bar da ritrovo sono il segno di molto da prendere e di sciorinate (fino all’eccesso) di qualsiasi tornaconto e buon gusto del futile apparente e della messa-in-scena in vanagloria da prima pagina per il ‘giornalaio’ da passa-parola e cazzeggiamento all’ennesima potenza. Il nulla. Il destino omnicomprensivo della vita distorta in una goduriosa aria sognante (e che Germi in quell’Italietta da post-boom aveva ben detto, inquadrato e sparigliato come non mai in ‘Signore & Signori’ (1966, di Pietro Germi) nella provincia ridanciana e finta del nord-est) riposta e posta in un encomio (distruttivo) cimiteriale. Che ‘dulcis’ in fondo il post-moderno retrò del cinema neorealista e commediante di un Bel-Paese dissacrato da molti e speziato da molti altri: il film che arranca nelle gesta scritturali e acerbo nel connubio attoriale si ritaglia una postura da realismo-vero con visi e sguardi carcerari (vedi “Cesare non deve morire” -2012- dei fratelli Taviani) come un mondo da avvicinare e una mano da porgere. Così il film di Matteo Garrone mette in primo piano (con una riuscita presenza) il pescivendolo Luciano (Aniello Arena) che si dimena nel quotidiano anche con altri (facili) guadagni con giro di ‘amici-cari’ nella vendita di buone cose e di oggetti giusti per le cucine delle famiglie popolari (di una Napoli seppur riconoscibile ma niente è da meno mentre nell’intorno odierno). Un uomo che ha l’angoscia-delirante di esercitarsi per un ‘grande fratello’ televisivo ed entrare nella facile assenza del tutto per un angelo (laicizzato) che spalanca la sua vita verso un’entrata (senza umano vivere) nel ‘guru’ festante di un gioco alienico tra angeli spenti e smaterializzati mentre il riso (non più beffardo ma posticcio) sale in arguzia da una luce minima di un (auto)funerale. Da l’Italietta dei mostri (irriverente e satirica) al Paese piatto e sputtanato (inerme e spalmato).

E d’altronde l’apertura filmica dall’alto con la carrozza nuziale e con sposi che cambiano in scena e scambiano la festa per un ridente luna-park aggrumato e ricolmo di idioti modernizzati (tra foto e infatuazioni) mentre una foto in posa dal ponticello finto (come tutto) s’accorge di non avere la posizione giusta in camera di un uomo sulla sedie a rotelle che appare il finto-disabile di turno (come in ogni dove); un groviglio umano di pochezza invereconda e di inestinte civiltà ‘sapiens’ che travisa sempre e comunque. E sì che l’elicottero è per il suadente imbevuto di sbudellamento onirico e presenzialismo con il logo festante registrato che valeva ieri, oggi e (forse) domani. Di un domani riluttante e speranzoso di pochissimo (del vuoto a perdere e dell’invadenza a spirale morente).

E tutto ciò che il film di Matteo Garrone ha da dire se ne riempie subito con gusto triturante del macabro gioco dell’inutile sogno e di un vivere al ribasso con dicotomie (etologiche) da rincoglionimento umano e da svilimento del minimo senso della relazione. Tutto ascritto e avallato da valori infangati dal futile (reale). Ma la postura rotolante (senza minimamente farsi del male) della scrittura rimane ingombrante a se stessa, recidiva nelle compiacenze e alquanto (in alcune sequenze) teatralmente ridondante. Non ci si diverte affatto (e questo si voleva) e la satira scioccante e ficcante è rimasta nei cassetti di ritorno di un rimasuglio di pellicola (tra Risi e Monicelli si ha la sensazione di una degenza asfittica e permutante della recita italica e del logo di riconoscimento tra viltà varie e rapporti popolareschi) mentre l’asciuttezza di piena di smancerie (utilmente inutili). Mentre il loro chiamare è visibile (a chiare lettere) nelle scalinate (sfoderate) del palazzo invecchiato dove salgono e scendono piedi stanchi e arrugginiti.

E nel gioco virtualmente vero, rimane in senso plaudente la movenza recitativa ed estremamente efficace di Anna Magnani in “Bellissima” (1951) di Luchino Visconti (che andrebbe visto e rivisto per l’anticipo folgorante dei tempi e la schiumosità radente del gusto oltre –e ci mancherebbe- il gusto del poco in apparenza, la satira feroce in un contorno umano emozionale e pieno di passione rimossa) che rimane l’epigono massimo di un certo cinema delle velleità nascoste, contratte e manifestate. Nel film di Garrone scompare il gusto della ‘traduzione’ fallace e il tutto (in grossa somma) ridà forza allo specchio di una nazione (velleitariamente e scanzonatamente a gustare le ultime luci solari…). Il realismo è morente e la passione del gioco accademica e finestrata. Non ci si vuole divertire ma il distacco è troppo (chiuso) per esserci dentro totalmente (dato che il ‘dado è tratto’ –il riso vi seppellirà- per certi rimasugli e manifestazioni televisive). L’immaterialità (di cui qualcuno ha parlato) è solo spudorata: certo che il pescivendolo non s’adombra e non crede ai suoi occhi quando è dentro alla ‘casa’ (‘un grande fratello’ visto in sordina, piatto e agonizzante, fiduciario di ogni nostro bel sogno post-moderno). Luciano dorme e giace. Ride senza mai guardarsi. Ride solo guardando. Mentre la morte ridanciana sta arrivando (e che l’epilogo arrivi verso l’ultimo ‘stadio’ dell’odissea –non spaziale- vana e nullo di ogni oblio). Un vuoto che s’addolcisce (nel giusto) con la musica del parigino Alexandre Desplat (con uno stilema morriconiano da Elio Petri e il suo “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” -1970-) nella partitura a più fasi alternata e alterata. Non c’è più il grottesco come partitura nascente di un Paese in strettoia (e in agonia) –anticipo di molti archetipi post e pulp- ma la transumanza dei corpi (senza una riflessione acerba e intrigante) innaturali e cosparsi di cenere in un lucernario di barocchismo elegantemente fasullo.

E il fasullo postuma nel film di Garrone: rende posticcio ogni ridicolo (‘seppur vi pare’) intervento tra una mamma e un figlio (Luciano naturalmente) e il richiuso ‘atelier’ della casa televisiva dove ognuno non si confessa ma si denuda senza sconto e senza argomenti da porre. La follia è eclatante ma il delirio (di postuma e ‘satira’ feroce appunto) non coglie mai appieno lo spettatore (e chi ne scrive) che si ridesta nella scena (troppo ripetuta per non essere tagliente) del donare a chiunque oggetti vari della propria casa (quella della abitazione da povero degente delirante), non sapendo che la gloria è un ‘paradisiaco’ mondo virtuale, perché qualcuno sorveglia e scruta così per avere le grazie (semplicemente suadenti) di persone che contano, meglio far gesti oltre il lecito. Basta vendere tutto (il proprio lavoro e pescheria, il proprio tirare avanti e la poca arguzia) e non tracimare oltre il delirio sognante perché dentro si deve operare e farsi suggestionare. La moglie nulla può o quasi. Tutti sembrano con lui (compreso l’amico barista) ma poi remano contro (i suoi famigliari) senza accorgersene a loro volta di favorirlo: tutti davanti alla tv per godere le immagini dei sogni della ‘casa’ (con una Claudia Gerini presentatrice sprecata e buttata lì per caso). In un logorroico parlare di nulla. Infatti i figli che fanno il tifo per papà (moglie e figli accompagnano a Cinecittà –tutto dire il luogo- per la selezione al furore televisivo) scompaiono piano piano. Il sogno prima. La famiglia decade. E, si deve dire, nella Cinecittà di antica memoria per un attimo si intravede un set felliniano e all’uscita in strada un’inquadratura dall’alto dei quattro che si allontanano (Luciano, Maria e i figli) danno il retrogusto amaro del regista riminese che si compiace ancora di fare una ripresa (“Intervista” -1987- di Federico Fellini) mente Matteo Garrone guarda il set e ogni luogo del morente cinema che fu.

E il posticcio largo e largheggiante(to) si fa strada quasi con dovizia di particolari in un pre-finale pieno di scorciatoie e un po’ scontato: tutto è aperto e (non) c’è spazio per giocare ancora. Chi sa dove e chi sa quando il ‘merdaio’ della delibazione verrà fuori in un ‘film’ sconquasso. Tutto ciò è visibile. Il soqquadro è un vitalizio parlamentare. Ma perché dobbiamo aspettare che il delirio finisca? C’è qualche luce (di unico mentecatto che non ride) per avere un leggio di un finale (o tal proposta) che sia futuro oltre? Lo spettatore può essere avvinghiato (al contesto, alla demenza, alla popolaresca vita, ai personaggi e alle riprese) ma sorge il sospetto che qualcosa non colpisca fino in fondo. Il dovuto (bravo) c’è. Manca l’arguzia (previsione lungimirante) e la sana satira triturante. Ecco che Pier Paolo Pasolini (che molti hanno richiamato) è andato in un oltre ancora da rendicontare con un ultimo funereo (allocco) e trasloco ultimo ancora da inquadrare. Un cinema degno di spegnimento delle illusioni. Garrone se ne compiace e ne dà verso. Senza un ardire di poesia (post e oltre).

E così il prete che ridà speranza (falsa) a un Luciano in posa col suo amico Michele (Nando Paone) ristagna in attesa di una fuga da una Via Crucis (in dissolvenza) che rimane sospesa e scorciatoia per un delirio terreno. E’ un sì accaldato quello che ci vuole trasmettere Garrone ma la sensazione di un film diluito, scarsamente coinvolgente e poco composto di movimenti forti è quello che viene fuori a fine proiezione. Saccenteria (nel giusto) e livello alto di proposta. Niente di che in un groviglio (leggerissimo e per poco irriverente) di scambi quando il riso posticcio e aggrumato di un demente scarica sulla cinepresa che s’allontana il disgusto di un mondo e le perplessità dello spettatore in uscita.

Gli attori sono in vena con una coppia Aniello Arena-Nando Paone da applausi e un contorno pieno di sagacia e buona verve napoletana. Tra i tanti si vuole ricordare il barista Ciro Petrone (che da primo tifoso diventa un ordinario di turno con ‘l’avevo detto…è un po’ matto’ parlando di Luciano alla moglie). Regia riuscita e di livello (e il Gran Prix Speciale della Giuria a Cannes’).
Voto: 7-.

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