Ve lo immaginate Charlie Kaufman – l’autore premio Oscar di Se mi lasci ti cancello, Essere John Malkovich e Il ladro di orchidee – che gira per una libreria di New York fino a che lo sguardo non gli cade su un romanzo intitolato Sto pensando di finirla qui? Quello stesso Charlie Kaufman che ha lavorato sugli stati depressivi dei suoi personaggi con gli attrezzi del surrealismo, montando e smontando palcoscenici su cui metterli in scena, su cui iperrealizzarli? Che ha trasformato la mente – tutt’altro che immacolata – dei suoi alter ego cinematografici, in palazzi da abitare, e poi in città intere, replicandone i quartieri al modo delle strutture frattali (Sineddoche, New York)?
Kaufman, ecco, io me lo immagino che legge il titolo di questo libro (bellissimo e inquietante, recuperatelo), e poi la sua sinossi, e poi un capitolo dopo l’altro, e decide che la trasfigurazione letteraria dell’horror vacui operata dal suo autore Iain Reid assomiglia in modo impressionante alla forma della sua ispirazione. Sto pensando di finirla qui diventa così, alcuni contratti e stesure dopo, un film esattamente kaufmaniano, cioè un film dove i luoghi sono l’esecuzione degli stati d’animo, le persone sono fantasmi, il tempo è un imbroglio. E le parole, l’indizio della fine.
Lucy e Jake attraversano in auto una tormenta per andare a trovare i genitori di lui. Una volta giunti a destinazione cominciano ad accadere cose strane: i genitori spariscono all’improvviso, poi tornano invecchiati o ringiovaniti, mentre Lucy riceve delle telefonate da una voce misteriosa che allude a qualcosa di tragico. Sulla strada del ritorno, con il tempo che è ulteriormente peggiorato, Jake decide di fermarsi al suo vecchio liceo, ma poi scompare lasciando la fidanzata in auto da sola. Nel frattempo un anziano bidello vaga per le aule della scuola raccogliendo cartacce e ricordi.
La spiegazione della storia, nel libro di Reid, è tutta nell’ultimo capitolo, in cui la relazione “ontologica” fra i protagonisti viene chiarita in modo definitivo e soddisfacente. Si può trovare tutto facilmente in rete. Il film non è altrettanto autosufficiente, come non è d’altra parte abitudine di Kaufman. La vaghezza che sceglie aumenta l’inquietudine e naturalmente innervosisce chi desidera la chiusura il cerchio, ma l’autore di Anomalisa si è sempre assunto la responsabilità delle domande senza mai dimostrare grande interesse – anzi, meglio, adeguatezza – per le risposte.
Ammettendo la sua posizione – che è una questione di stile ma nel suo caso prima di tutto un’idea di mondo – riconosciamo a Sto pensando di finirla qui tutti i meriti: quello di proseguire con coerenza il discorso poetico del suo autore; quello di valorizzare un quartetto di grandi interpreti; e soprattutto quello di operare ancora in una terra di frontiera, ormai perfettamente sua, dove l’impero della mente di lynchana memoria diventa un teatrino ibseniano di figure sfinite e dove l’orrore universale, apocalittico dello stesso Lynch, scolora in una questione di miserie quotidiane e occasione irrimediabilmente perse.
Perché “se mi lasci ti cancello”; ma se non mi hai voluto mai, se sono rimasto solo, non mi libererò più di te.
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