La cosa più eccitante di un Festival come Cannes è, ogni anno, la scoperta di un paio di opere travolgenti, che è subito chiaro segneranno tutto l’anno a venire – e forse il corso del dibattito sul cinema del presente, almeno per un po’. Non voglio nemmeno mischiare questa prospettiva con un giudizio di merito, si tratta di film più o meno riusciti, ma, appunto, destinati a travolgere le altre visioni. Lo scorso anno era successo con Anatomia di una caduta e con La zona di interesse, quest’anno è successo con Emilia Perez, con The Substance e ora con Anora di Sean Baker.
Il regista viene da film come Tangerine e Un sogno chiamato Florida ed è una presenza fissa a Cannes, una delle punte del cinema indipendente americano. Il suo cinema assomiglia un po’ a quello dei fratelli Safdie (quelli di Diamanti grezzi), ancora di più ora che dalla provincia americana ha deciso di spostarsi a New York. Anora racconta un paio di settimane nella vita di una lap dancer (Mikey Madison, fantastica) che arrotonda facendo la escort, fino a quando non conosce il figlio poco più che adolescente di un oligarca russo. I due passano un paio di serate assieme, poi una settimana, fino a quando non decidono di sposarsi a Las Vegas. Ed è qui che intervengono prima una squadra di gorilla armeni, e poi direttamente la famiglia, in arrivo dalla Russia con un jet privato.
Anora ribalta i cliché dei film di gangster, tutte le mitologie scorsesiane in particolare, partendo da un sentimento generazionale, dalla sensazione che il mondo stia lentamente sfuggendo ai suoi padroni di fronte a un gap fisico, linguistico e tecnologico – quindi di sensibilità, di energia vitale – non più colmabile. In Anora tutti i ragazzi in qualche modo si capiscono – che siano guardie o ladri, ricchi o poveri, delinquenti o integrati – ma, appena si salta di una generazione, è il buio. Nella straordinaria scena dell’irruzione nella villa, i rapporti di forza tra la protagonista e i gorilla russi sono costantemente invertiti rispetto alle abitudini del cinema di genere: non è solo una questione di tono (commedia, dove ci aspetteremmo il dramma), è una questione di ruoli.
Sean Baker costruisce attorno a questa idea un ritratto femminile potente, una donna in cui ingenuità, testardaggine e senso della morale si combinano in una forma di vitalità che non può che conquistare e commuovere. Nel suo viaggio al termine della notte, alla ricerca del marito che per sfuggire alla famiglia si è dato al vagabondaggio tra discoteche e night club, Anora razionalizza pian piano il senso di quel che le sta accadendo, ma non per questo deroga al suo sguardo sul mondo: che è limpido e onesto, che poggia sui principi con i quali l’America le (e ci) riempie le orecchie – libertà, diritti, proprietà privata. E che alla prova della realtà si rivelano naturalmente solo parole.
E così mentre un jet russo che trasporta un oligarca atterra senza problemi sul suolo americano e un giudice newyorkese si mette a disposizione, attraverso lo sguardo di Anora crolla non solo il senso di un amore e la prospettiva di una vita migliore, ma l’intera impalcatura ideologica dell’America liberale.
Dentro a questo film – che quindi, come tutti i grandi film sull’America, è un film sulla lotta di classe – ce n’è però un altro, che è sì commedia, è sì thriller, ma è soprattutto una doppia storia d’amore. Quella di Anora per il suo bel ragazzo russo, e quella del gorilla più giovane, che si innamora della sua anima onesta e fiammeggiante, osservandola sempre dall’angolo dell’inquadratura (proprio come accade a noi). Una doppia spirale che il film, scritto magnificamente, cuce infine assieme attraverso un’ultima scena perfetta.