Ancora una volta, alla breccia, cari amici, tornate alla breccia, scriveva William Shakespeare nel terzo atto dell’Enrico V, senza sapere che un giorno questa frase sarebbe tornata utile per descrivere l’uscita nelle sale di Aquaman e il regno perduto, ultimo film dell’ormai naufragato DC Extended Universe che ci ha tenuto compagnia per quasi quindici anni tra alterne fortune. Il 2024 sarà un anno di pausa nella programmazione, durante la quale James Gunn inizierà a imbastire il suo nuovo DCU a partire da Superman: Legacy, ma prima c’era da smaltire i rimasugli del vecchio impianto produttivo. Dopo The Flash e Blue Beetle (che probabilmente rivedremo) a chiudere i giochi è la seconda avventura in solitaria di Jason Momoa nei panni di Arthur Curry aka Aquaman. E che bella sorpresa si è rivelata!
Completamente slegato dal racconto corale del resto dell’universo di riferimento (al contrario di The Flash, ad esempio), questo Aquaman e il regno perduto riparte da dove era finito il precedente capitolo, tutt’oggi il film DCEU che ha incassato di più con oltre un miliardo di dollari al botteghino. Aquaman si divide tra la famiglia e il lavoro come sovrano di Atlantide, non senza difficoltà: vorrebbe rivelare il regno sottomarino al mondo, ma il Consiglio è contrario. Nel frattempo, il villain David Kane aka Black Manta (Yahya Abdul-Mateen II) è ancora intenzionato a vendicare la morte del padre uccidendo Aquaman e tutti i suoi cari. I suoi piani si fanno più concreti quando si imbatte nel Tridente Nero, una vecchia reliquia atlantidea in grado di risvegliare un oscuro potere andato perduto nel tempo e in grado, come da manuale, di distruggere il mondo.
Aquaman e il regno perduto è, in breve, tutto quello che il DC Extended Universe non è quasi mai riuscito ad essere: coerente, centrato, ben consapevole di cosa vuole essere e cosa vuole fare. Rispetto al primo capitolo, le vicende legate ad Amber Heard e il conseguente calo di popolarità patito dall’attrice hanno spinto il regista James Wan e il resto della squadra ad operare un cambio interno di focus: fuori Mera (relegata a poche ma importanti scene e tanti piani di ascolto) e dentro di nuovo Orm aka Ocean Master, villain del primo Aquaman del 2019 tornato questa volta per imbastire una bromance assieme ad Arthur. Il regno perduto è assolutamente una questione di famiglia, che riesce a restituire anche un senso di romantico ricongiungimento tra il personaggio scanzonato di Jason Momoa e quello austero di Patrick Wilson, pupillo del regista della saga di Insidious.
Non solo: questo Aquaman è ovviamente un cinecomic, ma oltre ad includere elementi di buddy movie alla Tango & Cash si è lasciato affascinare e ispirare dal genere avventura che ha fatto le fortune di franchise come Indiana Jones e molti altri. Il riferimento diretto è in realtà ai film di Ray Harryhausen, maestro dell’animazione a passo uno famoso per film come Il risveglio del dinosauro, Il mostro dei mari, L’isola misteriosa e via dicendo. Quello che Harryhausen ha fatto negli anni ’50 e ’60 con pupazzi animati in film live-action, Aquaman e il regno perduto lo fa con l’ausilio della tecnologia dei nostri passi. È pienamente un adventure movie, come le scene sull’isola misteriosa di Black Manta dimostrano, ma anche un film di mostri e creature fantastiche che fanno ancor più rimpiangere il progetto fallito di James Wan all’interno dello stesso universo narrativo, ovvero l’horror sui Trench, creature acquatiche comparse nel primo capitolo.
L’ultima avventura di Jason Momoa nei panni di Aquaman (prima del passaggio a Lobo?), pur con tutti i consueti difetti dei film DC Comics che alternano i toni in maniera poco equilibrata e non riescono quasi mai a restituire effetti speciali pienamente soddisfacenti, lascia quindi un sapore dolceamaro in bocca: dolce perché è un buon film d’intrattenimento, sempre cosciente della linea da seguire e in grado di permettersi anche più o meno sottili messaggi volti a sensibilizzare sulla situazione del cambiamento climatico che minaccia l’umanità come la conosciamo; amaro perché per certi versi è tutto quello che di buono il DC Extended Universe poteva essere.
Ad un certo punto, lungo la strada, la Warner Bros. ha pensato che per fare successo fosse necessario inseguire i modelli produttivi e narrativi del concorrente Marvel Cinematic Universe. I disastrosi Suicide Squad e Justice League hanno fatto naufragare l’intero progetto, ma invece di tornare alle origini si è deciso di affinare questo modello affidando tutta la baracca nelle mani di James Gunn. Scelta senza dubbio sensata e che probabilmente darà enormi soddisfazioni ai fan della DC Comics, ma resterà sempre il dubbio di cosa questo universo di cinecomic poteva essere, se avesse continuato a seguire la linea tracciata dai primi Man of Steel e Batman v Superman. Ovvero film che puntano ad una narrazione più matura, riducendo al minimo l’aspetto di commedia e lasciandosi invece ibridare da altri generi più “dark & gritty“.
La maturità di questo Aquaman e il regno perduto è insieme il perfetto addio e la dimostrazione che, nelle mani giuste e senza lasciarsi impaurire dalla concorrenza, questo mondo poteva benissimo dire la sua. Sarà per la prossima, Aquaman. Il DCEU è morto, viva il DCU.
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