Lontano dalle ispirazioni shakespeariane che ne hanno segnato la carriera e dagli adattamenti più o meno riusciti dell’epoca recente, Kenneth Branagh punta deciso verso gli Oscar con un’opera personale che si inserisce nel sempre più ricco – e a tratti ingolfato – filone dei semi-biopic autoriali. Dopo Roma e Dolor y Gloria, tocca all’attore e regista britannico raccontare la sua vita in Belfast.
La città dell’Ulster è stata teatro, negli anni ’60, di una drammatica guerra civile tra protestanti e cattolici, spesso ostracizzati e costretti a vivere dietro barricate presidiate dall’esercito. Il conflitto nordirlandese, conosciuto anche come The Troubles, e i suoi scontri nei quartieri misti hanno segnato l’infanzia di Buddy (Jude Hill), bambino che incarna lo stesso Kenneth Branagh, e la sua famiglia protestante. Stare dalla “parte sicura” e maggioritaria del conflitto però non lo ha messo al riparo dalle difficoltà di una società in costante bilico tra violenza e disperazione dovuta al contesto economico.
Buddy, però, è pur sempre un bambino lontano dalle sanguinose ideologie reazionarie dell’epoca e le sue giornate sono fatte di una leggerezza che cerca con fatica di nascondere la drammaticità della Storia in divenire. Compiti di matematica, un pallone, i pomeriggi a casa dei nonni paterni (Jude Dench e Ciarán Hinds), una compagna di scuola da conquistare e soprattutto cinema e televisione. Kenneth Branagh distingue soprattutto cromaticamente i medium che hanno segnato la sua infanzia e probabilmente i sogni futuri: la televisione, che oltre a film e serie trasmette anche telegiornali e filtra gli accadimenti storici, è in bianco e nero; dal cinema invece arriva l’unico accenno di colore in Belfast, proprio perché luogo dell’immaginifico, fuga dal reale, immanente e vivido ricordo.
Tutto questo – tema identitario, nostalgie familiari e aspirazioni infantili – è raccontato da Kenneth Branagh tramite una scrittura e una regia lontana dai vezzi autoriali di Roma: in Belfast, la leggerezza è il filtro tra la realtà del bambino e il dramma attorno a lui – come in Jojo Rabbit o, meno intensamente, Il bambino con il pigiama a righe. Allo stesso tempo, l’uso del bianco e nero di Haris Zambarloukos è distante da quello di Alfonso Cuarón o dagli arabeschi fotografici espressionisti del Macbeth di Joel Coen – per citare un altro recente film in b/n: qui offre una semplice prospettiva temporale, uno sguardo sul passato.
Allo stesso tempo, Belfast soffre delle “schizofrenie” registiche che hanno contrassegnato tutta la carriera dietro la camera di Kenneth Branagh, capace di passare dai terreni shakespeariani che meglio conosce a incursioni blockbuster come Thor e veri e propri punti interrogativi come Artemis Fowl. Quella stessa patina piaciona che garantisce immediata efficacia, contrassegna quindi anche una certa lontananza da un cinema autoriale tout court, lo confina nella midcult e ne evidenzia una pretenziosità formale che, non sorprende, sembra favorirlo agli Oscar – dove è candidato a Miglior Film, Regia, attori non protagonisti, sceneggiatura non originale, sonoro e canzone originale.
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