Black Mirror è uno specchio che non ha più niente da (e su cui) riflettere. La recensione della sesta stagione
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Black Mirror è uno specchio che non ha più niente da (e su cui) riflettere. La recensione della sesta stagione

I cinque nuovi episodi della serie creata da Charlie Brooker non riescono a ritrovare lo spirito originale dell'opera

Black Mirror è uno specchio che non ha più niente da (e su cui) riflettere. La recensione della sesta stagione

I cinque nuovi episodi della serie creata da Charlie Brooker non riescono a ritrovare lo spirito originale dell'opera

black mirror 6 netflix recensione
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Tre anni fa, all’inizio della pandemia, Charlie Brooker aveva giustificato così la lunga assenza dal piccolo schermo di Black Mirror: «Al momento non so quale stomaco ci sia per storie che raccontano di una società che cade a pezzi». Salto in avanti fino al 2023, con l’uscita della sesta stagione della serie distopica per eccellenza, ormai dal 2016 in mano a Netflix. Forse la società adesso è pronta per certe storie, ma Black Mirror non è più qualcosa che richiede stomaci forti.

I nuovi cinque episodi disponibili dal 15 giugno proseguono in tutto e per tutto la parabola discendente iniziata ormai da tempo: Black Mirror non scuote, non traumatizza, non mette a disagio lo spettatore di fronte ad una deriva tecnologica peraltro sempre più plausibile. Paradossalmente, ora che la serie potrebbe raccontare distopie meno rivolte al futuro, ma più al presente, ora cioè che la forbice si è ridotta, Charlie Brooker ha smesso di calcare la mano ed è sprofondato in un eterno ciclo di vanagloriosa riflessione – di sé, non nel senso di analisi attenta e meditata.

Eppure qualche scintilla di speranza c’è stata: il primo episodio, Joan è terribile, è una divertente meta-narrazione in cui una donna (Annie Murphy), interpretata da Salma Hayek, scopre che tutta la sua vita è diventata una serie trasmessa in streaming su Streamberry (in tutto e per tutto un ricalco di Netflix) e tutto questo le sta rovinando la vita; è successo perché non ha letto bene i famosi termini e condizioni che tutti accettano senza troppi pensieri: una stoccata leggera ma simpatica ai nostri usi e costumi tecnologici.

Anche il secondo episodio, Loch Henry, si avvicina allo spirito primigenio di Black Mirror: una coppia di aspiranti filmmaker decide di girare un documentario su un serial killer attivo nel paesino d’infanzia di uno di loro, salvo scoprire che la sua tragica storia si intreccia a quella sua familiare. Il tutto filtrato attraverso l’onnipresente schermo nero, che dà il titolo alla serie e nelle intenzioni un senso narrativo e di tensione che, però, non esiste più. Entrambi questi episodi, così come il terzo con protagonisti Aaron Paul e Josh Hartnett (astronauti in grado di connettersi a repliche dei propri corpi rimasti sulla terra e condurre così una vita “normale” intanto che sono nello spazio), si limitano infatti a stuzzicare lo spettatore, cedendo poi ben presto alla stucchevole e fastidiosa tendenza a cercare il colpo ad effetto.

Black Mirror è diventata solo un’altra serie antologica convinta che il formato giustifichi disattenzioni narrative e finali aperti, che tutto quello che occorre sia un colpo di scena il più folle possibile messo proprio negli ultimi 5 minuti di puntata. Lontana dagli ansiogini racconti di futuri sempre più probabili in cui l’umanità avrebbe dovuto fare i conti con una tecnologia sempre più demiurgica, con questa sesta stagione è equiparabile invece ad una Love, Death & Robots o alla recente Il Gabinetto delle Curiosità di Guillermo del Toro – due esempi di racconti brevi che non portano mai da nessuna parte se non al tentato effetto “wow”.

Tutto questo è evidente negli episodi 4 e 5. Se quello con Zazie Beetz (Mazey Day) può ancora rientrare a forza nel canone di Black Mirror per quella facile retorica un po’ sul comportamento dei paparazzi e la loro fame di fama, il quinto (Demone 79) è quanto di più lontano possibile dalle prime stagioni della serie di Charlie Brooker. Ma anche dalle ultime. Entrambi sono un esercizio di stile, un divertissement di genere che sfocia il primo nel cinema di creature e il secondo nell’horror commedia con vaghissimi rimandi a una certa estetica anni ’60. Nessun tentativo di far riflettere qualcosa o di far riflettere su qualcosa.

Un peccato, considerando il successo degli inizi. Ma forse il fallimento sempre più evidente di Black Mirror può essere letto come il suo stesso trionfio, la sua auto-realizzazione: anestetizzati dalle ansie delle distopie tecnologiche, stiamo abbracciando quelle stesse realtà che un tempo ci avrebbero terrorizzato. Intelligenze artificiali, deepfake, i tabù tecnologici sembrano completamente saltati. Basti pensare a cosa ha dichiarato poco tempo fa Joe Russo, regista di Avengers: Endgame, parlando di AI:

Potenzialmente, quello che si può fare con una AI è ovviamente usarla per creare storie e cambiare lo storytelling. Potete avere una storia in costante evoluzione, come in un gioco o in un film o una serie tv. Potreste entrare in casa e dire alla AI sulla vostra piattaforma streaming: ‘Ehi, voglio un film con il mio avatar fotorealistico e quello di Marilyn Monroe. Voglio che sia una rom-com perché ho avuto una giornata difficile’. E la AI creerà una storia con dialoghi che mimino la vostra voce. Improvvisamente, avrete una rom-com da 90 minuti. Potrete ideare una storia specifica per voi.

Ovvero a grandi linee la trama del primo episodio di Black Mirror, stagione 6. Il futuro è oggi, ma speravamo meglio.

Foto: Netflix

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