Jacques Audiard fa un cinema muscolare che difficilmente delude i cinefili; è regista alla maniera di Coppola (visto che ne stiamo parlando in questi giorni) o di Skolimowski o di Chazelle: ha una “fiducia nelle immagini” che non è semplice ricerca dello spettacolo, non è allestimento di uno show, ma convinzione che se si spinge sulla composizione del quadro, se ci si lancia in un abbraccio sensoriale, se si è generosi, la natura del racconto ne trarrà giovamento. A questo si aggiunge la passione per il melodramma, per il thriller, il piacere di vestire con il genere storie che hanno un tracciato sociale forte.
Tutti questi elementi confluiscono in modo convincente in Emilia Perez, la prima escursione di Audiard nel musical. Tratto da un libretto d’opera mai messo in scena, racconta la storia di Manitas (la star spagnola transgender Karla Sofia Gascon), un feroce narcotrafficante che vuole diventare una donna. Per farlo chiede aiuto a Rita (Zoe Saldana), un avvocatessa di Città del Messico frustrata dai casi che è costretta a seguire (nell’incipit del film la vediamo scagionare un uomo che ha ammazzato la moglie) e dalla mancanza di prospettive per la sua carriera.
Quello che Manitas desidera è discrezione e organizzazione, ovvero operarsi e ricominciare una nuova vita lasciando credere a tutti, compresa la moglie (Selena Gomez) e i figli, di essere rimasto ucciso di un agguato. Rita trova un chirurgo disposto a gestire la cosa a Tel Aviv e trasferisce in Svizzera la famiglia di Manitas. Ma arriva il momento in cui il boss, che ora è una donna e si fa chiamare Emilia Perez, sente la nostalgia dei bambini, innescando una reazione a catena che sarà difficile controllare.
Emilia Perez è un musical ma non alla maniera di Evita: la musica ha un ruolo intermittente, a volte sono solo blande melodie innestate nel parlato, e quando esplode in coreografie, esse non durano a lungo. Vista la natura del cinema di Audiard, si intuisce come questo genere di linguaggio gli si addica, e infatti la naturalezza con cui passa dal thriller al melò alla messa in scena del cantato è impressionante. A Cannes sono fioccati i paragoni con Almodovar, chiaramente per affinità tematiche, con la differenza che Almodovar lavora di solito sulla suspense sentimentale, cioè sul mélo, mentre Audiard sa perfettamente come si gira un thriller, e si capisce che si diverte quando trascina il romance da quelle parti (basti pensare alla sequenza del bambino che recapita un “pacco” a Rita).
Il film è colorato, trascinante, generoso, e ha un finale classico da gangster movie. Gascon gli dà l’anima, Saldana la consistenza divistica, la robustezza, e si vede che sono tutti convinti ed entusiasti del progetto. Ne esce un lavoro di qualità, di puro godimento cinefilo, che come spesso accade con Audiard non ha però assi nella manica: si esaurisce con i titoli di coda, non nasconde un mondo dietro di sé, non ha nulla da rivelare.
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Foto: Pathé
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