La vita di un giovane attore (Lucas Hedges, sempre più specializzato in ruoli di ragazzi problematici) è segnata da episodi di violenza e fratture col passato che non è mai stato capace di risolvere e fanno il paio con la sua dipendenza da droghe e alcol. Da bambino ha infatti intrattenuto un rapporto nient’affatto equilibrato e pacifico col padre (Shia LaBeouf): un legame che ha finito con l’influenzare la sua esistenza e che lo vede lottare costantemente, anche da uomo fatto e finito, per trovare una possibile, auspicabile riconciliazione. Anzitutto con se stesso.
Premiato alla scorsa edizione del Sundance Film Festival con il Premio Speciale della Giuria e presentato alla Festa di Roma, Honey Boy è un progetto che nasce da una sceneggiatura del controverso attore Shia LaBeouf, che negli ultimi anni ha legato il suo nome più alle infinite intemperanze e alle pose puntualmente sopra le righe che ai film in cui ha recitato.
Honey Boy è per lui una sorta di catarsi pubblica, una confessione sfacciata e senza filtri: il coming of age autobiografico è una lente attraverso la quale mostrare al mondo le origini di un malessere che ha portato LaBeouf a ostentare una schizofrenia mediatica capace di trasformare molte sue apparizioni in degli happening discutibili e fuori di testa. Citiamo a titolo di esempio l’esperimento che consisteva nella la visione ininterrotta, per un totale di 3 giorni, dei suoi film in ordine cronologico inverso, perché la lista sarebbe davvero lunga, tra detenzioni, rehab, atteggiamenti molesti su set e via discorrendo (ed è proprio in riabilitazione, va detto, che LaBeouf ha firmato questo copione).
Ispirandosi dunque alle sue esperienze personali e facendosi guidare dalla regia di Alma Har’el, americana di origini israeliane spesso impegnata dietro la macchina da presa per svariati video musicali e autrice del documentario Bombay Beach, l’ex star di Transformers è riuscito però a incasellare e convogliare un disagio dalle radici profonde e sotterranee in un prodotto sincero e spudorato, efficace sul piano cinematografico e mai esasperato né ombelicale nonostante il coinvolgimento in prima persona che lo investiva con prepotenza inaudita.
LaBeouf in Honey Boy veste i panni addirittura del suo stesso padre, in un impeto di psicanalisi letterale che non sembra aver bisogno di nessun tipo di intermediazione e contrappunto per trovare concretezza viscerale sullo schermo (e di questa incoscienza anzi si nutre, con una sorta di cannibalismo al contempo suicida e rigenerante). Si rispecchia nel genitore – eroinomane, hippie e clown da rodeo – senza mezzi termini, consapevole di quanto questa scelta si potesse tramutare in un arma a doppio taglio, e al contempo cavalca con sicurezza il rischio, risultando credibile e mettendoci una dose non indifferente di abnegazione borderline che in pochi di questi tempi a Hollywood posso permettersi.
Honey Boy si muove così tra passato e presente, ricorrendo a dei flashback ben integrati nella narrazione, fin troppo ricorrente mai fastidiosi, e immortala un’instantanea tutt’altro che trascurabile delle nevrosi connaturate al mondo dello show business e ai meccanismi con cui l’ingranaggio avvolge nelle sue spire quanti cercano di entrarvi dalla porta principale. Legando a questo percorso di affermazione tutte le proprie energie e, in buona sostanza, le sorti degli sviluppi futuri delle proprie vite.
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