Il cinema pop contemporaneo sembra correre su una strada a due corsie: da un lato il gusto post-moderno per la rielaborazione di generi e stilemi classici, svecchiati e riproposti come fatto per esempio in The Suicide Squad; dall’altro il citazionismo spinto che gode proprio nell’inondare lo spettatore di riferimenti ad un mondo che conosce alla perfezione. Free Guy, il nuovo film di Shawn Levy con protagonista Ryan Reynolds, è l’esempio perfetto di questo secondo tipo di cinema.
Tutto è ambientato in una città dichiaratamente irreale dove vive Guy, impiegato di banca stranamente a suo agio nel subire tutti i giorni violente rapine, pestaggi e crimini di ogni tipo. La particolarità di Guy è che in realtà è un PNG (NPC all’inglese) ovvero un personaggio non giocante di un videogioco.
Free City è infatti un open world simile a GTA Online (il nome richiama la Liberty City del titolo Rockstar) in cui i giocatori possono salire di livello, collezionare armi e distruggere tutto, trucidando nel mentre le malcapitate comparse. Guy però è diverso e la sua vita virtuale cambia quando incontra la giocatrice Milly (Jodie Comer), giovane programmatrice che tenta di sovvertire la Soonami (Sony-Konami) per aver creato Free City da un suo videogioco nato con presupposti ben diversi.
La natura stessa di Free Guy – Eroe per caso spinge al costante paragone con altri film. È Matrix, ma al contrario: invece di umani che si risvegliano in un mondo creato dalle macchine, qui è un algoritmo che cerca di sovvertire le regole del codice costruito attorno a lui. È The Truman Show, nell’idea del protagonista ignaro in un mondo limitato e finzionale, ammirato da un pubblico che non conosce e che non vede.
Il contesto deve moltissimo soprattutto a Ready Player One: anche qui la storia si svolgeva in un videogioco, ma rispetto a Free Guy l’ambientazione futuristica restituiva maggiore credibilità narrativa alle meccaniche videoludiche che si vedono in Free City, giocato da chiunque tramite un semplice laptop. Come il film di Steven Spielberg, inoltre, anche Free Guy è una cornucopia di citazioni: proiettate verso gli anni ’80-’90 nel primo, più attuali nel secondo (con un paio di “bombe” che faranno la gioia dei fan Marvel e di Star Wars).
Infine, il film con Ryan Reynolds ha chiari ed evidenti rimandi a Westworld: l’idea di un personaggio non reale che si risveglia, inizia a crescere e sentirsi “vivo” fa immediatamente pensare al percorso degli androidi del parco a tema vecchio West. Come nel film di Michael Crichton e nella serie HBO, anche in Free Guy si finisce su concetti quali la reificazione e la fenomenologia dello spirito, ma in maniera più leggera e spensierata.
Lo scopo di Shawn Levy non è tanto interrogarsi sulla natura di Guy, quanto far sentire lo spettatore emotivamente vicino al destino di un personaggio virtuale. Il sentimento che vuole suscitare è lo stesso provato dai bambini quando si stringono all’orsetto di peluche convinti che sia vivo, oppure quello che i grandi nutrono per il proprio avatar durante una campagna di D&D o ad una partita a Skyrim, Fortnite e via dicendo.
A limitarne l’efficacia ci sono però stereotipi che annacquano la storia, soprattutto quando dal mondo virtuale si passa in quello reale dei nerd smanettoni che dicono cose come “killa il nabbo, bro“ e con 3 click sulla tastiera proiettano live in tutto globo quello che succede a Free City. Se l’intento è parlare alle generazioni che fruiscono questi mondi virtuali quotidianamente, questo è un aspetto macchiettistico che può allontanare.
Free Guy si dimostra comunque divertente e leggero, l’ideale per vedere sul grande schermo quell’idea di immaginario videoludico che ha appassionato milioni e milioni di persone in tutto il mondo. E con la possibilità di avere un avatar come Ryan Reynolds, chi non vorrebbe fare una partita a Free City?
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