Holy Shoes: se la prendono con la scarpa, ma la colpa è del piede. La recensione del film di Luigi Di Capua
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Holy Shoes: se la prendono con la scarpa, ma la colpa è del piede. La recensione del film di Luigi Di Capua

L'autore dei The Pills debutta alla regia con un film a tratti pessimista che ruota attorno ad un paio di glorificate scarpe. Dal 4 luglio al cinema

Holy Shoes: se la prendono con la scarpa, ma la colpa è del piede. La recensione del film di Luigi Di Capua

L'autore dei The Pills debutta alla regia con un film a tratti pessimista che ruota attorno ad un paio di glorificate scarpe. Dal 4 luglio al cinema

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Nell’aforisma preso da Aspettando Godot di Samuel BeckettThere is man in his entirety, blaming his shoe when his foot is guilty») si annidano molti dei concetti e dei tratti propri di Holy Shoes, opera prima dell’attore e sceneggiatore italiano Luigi Di Capua presentata fuori concorso nella sezione La prima volta al 41/o Torino Film Festival. Da un lato c’è il riferimento letterale alle scarpe, dall’altro quel sospeso di assurdità tanto caro al drammaturgo irlandese.

Holy Shoes racconta quattro storie diverse che si intrecciano (quasi tutte) grazie ad un paio di scarpe dai contorni mistici: le Typo 3, con il loro accecante bianco, sono la reliquia sulla quale vengono proiettati i desideri di diversi personaggi, più o meno schiavi della vita e soprattutto del consumismo moderno. Filippetto è un ragazzo di 14 anni pronto a tutto per fare colpo sulla fidanzatina benestante, spingendosi ben oltre i limiti dell’etica e della legalità pur di regalarle quel paio di scarpe; Bibbolino è invece un rivenditore di sneakers, rampollo alto-borghese che fatica a trovare una propria identità al di fuori dell’ombra paterna; Mei è un’adolescente cinese che cerca di costruirsi un futuro luminoso lontano dal ristorante di famiglia e che vede in alcune Typo 3 falsificate la possibilità per farcela.

Resta fuori solo la vicenda di Luciana (Carla Signoris), donna di mezz’età che proietta le proprie insoddisfazioni sulla vicina di casa e la sua vasta rassegna di scarpe col tacco. Sulla carta è una storia che non si intreccia con le altre, se non per il caso scatenante, ma quando un paio di Marmont nere con suole rosse finiscono miracolosamente (con esplicito riferimento biblico) ai suoi piedi, Luciana riscopre la sua femminilità e che la sua fiamma è ancora accesa.

Le quattro storie di Holy Shoes affrontano quindi da punti di vista diversi lo stesso argomento: il potere degli oggetti sull’uomo, il loro significato che va oltre il materico, il desiderio che tramite reificazione assume la forma abbagliante di un paio di scarpe. Il primo elemento di interesse riguarda proprio la scelta dell’oggetto da esplorare, rimirare, ambire e conquistare: non un gioiello o un diverso capo di abbigliamento più in vista, ma qualcosa di “terra a terra”, che immediatamente permette di identificare non solo lo status sociale di chi lo indossa, ma anche in qualche modo quanto il peso della vita stia segnando oggetto e persona. Lo capiamo bene dalle scarpe ortopediche di Luciana o quelle da lavoro di Mei, lise e consumate, distanti da quelle costantemente pulite ed esposte in vetrina o sugli scaffali di Bibbolino.

Più che sul consumismo in sé (il mercato delle sneakers ha assunto contorni e dinamiche incredibili, anche in Italia dove sta spopolando sempre di più il fenomeno del reselling che coinvolge soprattutto i giovanissimi), al centro di Holy Shoes c’è il rapporto fisico e a tratti malato che si instaura tra l’uomo e l’oggetto, cosa si è disposti a fare per ottenere quel simbolo di desiderio che incarna il potere disfunzionale che gli stessi oggetti esercitano su di noi.

Luigi Di Capua – attore e sceneggiatore noto per far parte assieme a Luca Vecchi e Matteo Corradini del gruppo comico The Pills, oltre che per aver firmato  le sceneggiature di due Smetto quando voglio, Sono solo fantasmi, I cassamortari e il recente Il più bel secolo della mia vita – affronta il tema con sguardo malinconico e riflessivo, senza nascondere il pessimismo che sembra aleggiare sulle sue considerazioni, evidente soprattutto nell’epilogo della storia del giovane Filippetto. Holy Shoes racconta un mondo in cui tutti desideriamo ciò che non abbiamo, vogliamo essere ciò che non siamo e sceglie di farlo con uno stile visivo che richiama la frenesia dei fratelli Safdie di Uncut Gems e i risvolti da favola nera dai tratti pirandelliani dei fratelli D’Innocenzo di Favolacce.

Sembra esserci poco spazio per la redenzione e il riscatto sociale e personale, ma qua e là vengono disseminati semi di una bontà e di una purezza che cerca di emulare il bianco delle Typo 3, ritrovandosi però infangata dalle stortura della vita e le sue difficoltà. Ed è qui che la frase di Aspettando Godot può tornare utile per sintetizzare al meglio Holy Shoes: storie di persone che vedono nelle scarpe una via di fuga per i problemi dei loro piedi.

Foto: Pepito Produzioni/Rai Cinema

 

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