Ne Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, i soldati della guarnigione che occupa la Fortezza Bastiani aspettano. Aspettano e aspettano ancora. Attendono l’arrivo del nemico, della grande occasione, ma nel frattempo generazioni di soldati vengono consumati dal tempo, compreso il protagonista Giovanni Drogo. Quando finalmente scoppia la guerra contro il Regno del Nord, è vecchio e malato e non può prendervi parte. Il senso dell’opera di Buzzati sta nella riflessione sulla fuga del tempo, calato in quell’atmosfera fiabesca che promette, promette e accade quando è ormai troppo tardi. Un immaginario letterario che torna utile per riassumere le sensazioni al termine della seconda stagione di House of the Dragon.
Non siamo nell’assurdo di Samuel Beckett e del suo Aspettando Godot, ma dopo il finale di stagione resta quel senso di vana attesa di qualcosa che non è ancora accaduto, forse accadrà, ma nel frattempo il presente scorre inesorabile e porta via con sé parte di quel travolgente entusiasmo rimasto dopo la prima stagione. Lo spin-off del Trono di Spade è ancora una serie di altissima qualità, soprattutto nella messa in scena e nella profondità con la quale porta lo spettatore all’interno dell’immaginario proposto, ma questi nuovi episodi hanno vissuto di troppi alti e bassi per non ammettere che sì, qualcosa per strada è stato perso.
O meglio, il passo sulla stessa strada è rallentato. Neppure la serie principale che adatta i principali romanzi di George R.R. Martin sono passate alla storia per celerità di azione, certo, ma anche rispetto ai propri standard questa House of the Dragon 2 ha ciondolato fin troppo in lungo e in largo per i Sette Regni, lasciando alcuni personaggi (come Daemon) in una sorta di castigo narrativo che si è espresso in una serie di scene ripetute che hanno fatto avanzare solo di un centimetro alla volta i rispettivi archi narrativi. Uno sbrodolamento che non ha giovato di certo al giudizio su singoli episodi, saggiamente intervallati da colpi di scena che sono sì iconici e ormai connaturati nel franchise stesso, ma che forse sono risultati particolarmente adrenalinici solo per contrasto con il logorio di altri momenti.
I draghi, senza dubbio. Hanno causato loro tutte le palpitazioni sentite durante questa seconda stagione: merito di una regia e di una scelta di inquadrature dedicate mai così sublime, così dedicata alle creature mitologiche che fungono da deus ex machina dell’intera serie. Ogni loro comparsa sullo schermo però ha il sentore del money shot, ed è inevitabile quindi che vengano dosate (meno che in passato, però) e ciò che resta sono talvolta infinite chiacchiere di corte che partono e finiscono nello stesso punto. Un giro tondo di intrighi e inganni, di piccole vittorie o ininfluenti sconfitte che lasciano tutti esattamente al loro posto e che contribuiscono ad aumentare la sensazione di torpore smanioso che alimenta non solo Westeros ma anche parte del pubblico. C’è una guerra da combattere, ma non arriva mai: è il deserto dei Targaryen, più che dei Tartari.
Ora non resta che aspettare altri due anni per entrare finalmente nel vivo della guerra civile che ha dilaniato i Sette Regni, quella tra i Neri di Rhaenyra Targaryen e i Verdi del fratellastro Aegon II. Con la speranza che si entri subito nel vivo, non per ingordigia o ingratitudine verso una scrittura tendente al dramma da camera e che ha regalato alcuni dei momenti più alti della televisione dell’ultimo decennio, ma per spasmodica volontà di veder portata avanti la storia e i personaggi, senza più (troppi) giri a vuoto e letterali (s)fiammate qua e là.
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Foto: HBO
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