Leggera, ma inizia già ad avvertirsi: per ora è solo una febbricola, lontana dagli spasmi che hanno accompagnato le ultime stagioni della serie madre Game of Thrones, ma l’uscita dei primi episodi dello spin-off House of the Dragon ha riattivato il sistema immunitario dei fan de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco e dell’ormai codificato genere cappa, sesso e spada.
A giudicare dall’entusiasmo con cui è stato vissuto il debutto del primo episodio e la “messa in onda” del secondo, la febbre da Trono di Spade che ha contagiato per anni il pubblico è pronta a farsi sentire di nuovo. Sono cambiati gli interpreti (tutti) e il periodo storico di riferimento, ma le prime due puntate hanno messo bene in chiaro che le ambizioni attorno a cui ruota tutta la narrativa creata da George R.R. Martin è la stessa: sedersi sull’Iron Throne, ottenere il potere temporale sul Continente Occidentale.
L’obiettivo è lo stesso, la regola aurea anche («Quando si gioca al gioco del trono, o si vince o si muore»), ma House of the Dragon si è dimostrata per certi versi antitetica alla serie madre. Simile, ma diversa. Per iniziare, si è “ristretta”: non ci sono più improvvisi salti dalla Barriera alle spiagge di Dorne fino alle Città Libere oltre il Mare Stretto, ma è tutto concentrato nelle stanze della Fortezza Rossa con qualche occasionale gita fuori porta fino a Roccia del Drago.
Più circoscritta nel luoghi, ma soprattutto più intima nei personaggi: House of the Dragon, fin ora, si sta dimostrando come un dramma familiare, più che politico. Beninteso, di politica ce n’è comunque moltissima: tutto il nucleo tematico attorno all’eredità del trono di spade offre interessanti spunti proto-femministi sulla possibilità che una donna, Rhaenyra, diventi Regina alla morte del padre Viserys, quinto re Targaryen dei Sette Regni. Tuttavia, la lente attraverso cui viene filtrato il racconto è decisamente più recondita di quanto non si sia visto in tutte le linee narrative di Game of Thrones.
Persino Cersei, che desiderava una dinastia guidata dai figli Lannister ed è stata assurta a fiera leonessa pronta a dare tutto per loro, non ha mostrato in otto stagioni un legame così puro come quello tra Paddy Considine e Milly Alcock. Un padre e una figlia, prima che le imposizioni del ruolo sovrascrivano questo affetto e li rendano Re e Principessa/Futura Regina. Allo stesso modo, è altrettanto familiare la dinamica che si intreccia all’altra grande aggiunta della storia, quel Daemon Targaryen interpretato da Matt Smith – il Claudio di questo Amleto coi draghi – che darà vita alla guerra civile dell’antica casata valyriana.
Per quanto House of the Dragon si muova nelle navigate acque della serie con Emilia Clarke e Kit Harington (con tanto di stessa sigla, ma nuova animazione), c’è una scena in particolare del primo episodio che demarca la differenza profonda di approccio e di prospettive dello spin-off. Durante il funerale di Aemma Arryn, madre di Rhaenyra, e del neonato e subito morto Baelon, la vediamo dare al suo drago lo stesso ordine che ha entusiasmato – ormai anni fa – i fan di Daenerys Targaryen: «Dracarys».
L’intenzione dell’ordine, però, è diametralmente opposta: Daenerys lo ha dato spinta dalla rabbia, dal desiderio di vendetta, di sangue. Uno dei segni premonitori della sua furia nel tanto contestato finale di Game of Thrones. L’ordine di Rhaenyra, invece, nasce dal dolore, dal lutto, dall’amore per la madre e il fratello. Anche in questo caso, una dimensione familiare. Uno slittamento di significato, non di significante.
House of the Dragon riparte quindi dall’apice (tecnico, soprattutto) del successo del Trono di Spade: non avendo bisogno di una stagione di prova per raccogliere consensi, ha capitalizzato la stessa maniera di raccontare il fantasy medievale e si è distinta da subito per similitudini e differenze. Le prime familiarizzano, le seconde promettono un grande futuro.
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