Ryusuke Hamaguchi si conferma un poeta della normalità. Dopo aver conquistato pubblico e critica mondiali con Drive My Car, ha portato alla scorsa 80esima Mostra del Cinema di Venezia una nuova storia molto piccola ma che affonda le mani nel reale: Aku wa sonzai shinai, reso in italiano con Il male non esiste.
E sembrerebbe proprio così nel villaggio di Mizubiki, località montana vicino a Tokyo nella quale si seguono i ritmi della natura e il bene più prezioso è l’acqua, che dalle montagne scorre verso valle. Qui vivono il taciturno tuttofare Takumi e la figlia Hana, la cui vita viene per modo di dire turbata dalla prospettiva della costruzione di un glamping (campeggio glamour) nei pressi del paese. Dietro al progetto non ci sono multinazionali malvagie e senza scrupoli, ma un’agenzia di spettacolo i cui due funzionari cercano anzi di trovare punti di incontro con gli abitanti locali, districandosi tra necessità burocratiche, economiche e la bonaria predisposizione a non indisporre nessuno.
Inizialmente pensato come filmato di accompagnamento per l’esibizione della compositrice di Drive My Car, Eiko Ishibashi, Hamaguchi si è fatto talmente coinvolgere dal progetto e dal materiale da ripensarlo e completare il lavoro come un unico film. A convincerlo è stata in particolare la libertà di questo modo di fare cinema e l’idea di aver catturato appieno le interazione delle persone nella natura.
Il male non esiste, effettivamente, è un film che procede secondo il ritmo del mondo rappresentato. Poco viene omesso, ancora meno viene eliso: il suo cinema vive di piccoli gesti in grado di trasmettere se non emozioni quantomeno una naturale sensazione di calma, di tranquillità familiare. Se in Bastarden, altro film visto a Venezia 80, è il magnetismo di Mads Mikkelsen a catturare lo spettatore, nel caso di Hamaguchi è la semplicità e completezza del suo sguardo a essere irresistibile. Il regista sembra essere poco interessato al fittizio, quanto piuttosto al calarsi il più possibile in un contesto di indisputabile realtà quotidiana. A beneficiarne sono soprattutto i dialoghi, sempre squisitamente credibili e onesti.
Rispetto al film che gli ha consentito di portare a casa il Prix du scénario al Festival di Cannes e il premio Oscar come Miglior film internazionale (su quattro candidature, tra cui quella principale, prima volta per un giapponese), Hamaguchi qui, oltre a rivendicare il proprio tempo del racconto, si lascia andare anche ad un finale di stampo più lirico, che sicuramente può lasciare l’amaro in bocca a una parte di pubblico ma anche stimolare interessanti riflessioni.
L’intero racconto andrebbe infatti riletto alla luce degli ultimi minuti, nei quali quel male dichiarato inesistente sembra comunque trovare il modo di farsi largo anche in un contesto placido come quello del villaggio di Mizubiki. Non lo fa sotto forma di un villain, di un cattivo palese da affrontare e sconfiggere per portare a termine un ideale viaggio dell’eroe, ma in maniera più sottile. Il male non esiste, nessuno agisce mosso da cattiveria ma, nonostante questo, il dolore e la tragedia trovano comunque modo di infiltrarsi.
Un’idea che si presta bene all’intenzione primaria del film di Hamaguchi, ovvero catturare l’essenza comunitaria tra uomo e natura in quel particolare contesto lontano dal caos cittadino. Una natura non selvaggia e inospitale come quella mostrata nel già citato Bastarden, ma nondimeno in pericolo e a suo modo pericolosa, in grado di dettare tempi e talvolta anche la morale. Il male non esiste si presta quindi ad una lettura da dramma ecologista, espresso in maniera così sottile da essere lontanissimo da qualsiasi facile retorica – alla Don’t Look Up, giusto per citare un titolo recente che si è concentrato su questa tematica.
Foto: NEOPA Inc
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