Intelligenza artificiale e satira della cancel culture: Le Deuxième Acte apre il Festival di Cannes
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Intelligenza artificiale e satira della cancel culture: Le Deuxième Acte apre il Festival di Cannes

Il film è una commedia surreale di Quentin Dupieux, con Léa Seydoux e Vincent Lindon, che sarà distribuita in Italia da I Wonder Pictures

Intelligenza artificiale e satira della cancel culture: Le Deuxième Acte apre il Festival di Cannes

Il film è una commedia surreale di Quentin Dupieux, con Léa Seydoux e Vincent Lindon, che sarà distribuita in Italia da I Wonder Pictures

le deuxieme acte cannes 2024

Come da consuetudine degli ultimi anni, il Festival di Cannes si è aperto con la proiezione fuori concorso di un film francese in uscita nelle sale. Stavolta a beneficiarne è stato Le Deuxième Acte di Quentin Dupieux, coprodotto da Netflix, il che ha portato il colosso dello streaming ad essere presente con il suo marchio per ben due volte nella giornata inaugurale (Netflix ha finanziato anche il restauro del Napoleone di Abel Gance, che era stato proiettato nel pomeriggio), nonostante le polemiche che vanno avanti ormai da anni: a Cannes possono infatti accedere al Concorso solo i film destinati a uscire in sala, ma in Francia c’è una legge che impone una finestra lunghissima tra fruizione su grande schermo e in streaming, di fatto bloccando i film Netflix

Il cinema di Dupieux non è mai cambiato da Rubber, il film d’esordio che raccontava le scorribande di uno pneumatico senziente e omicida: commedie dell’assurdo, cinefile nello spirito e metacinematografiche nella scrittura, cioè film che riflettono sulle forme e sullo stato del cinema – come linguaggio e come industria – mentre ne smontano i meccanismi e i luoghi comuni sotto gli occhi dello spettatore.

In Le Deuxième Acte c’è un quartetto di attori (poi diventano cinque) che nel bel mezzo del secondo atto di una commedia (che non si svilupperà mai e in definitiva non ha nessuna importanza) abbandonano i panni dei loro personaggi e si lasciano andare a sfoghi e idiosincrasie, vagamente legate alla loro immagine pubblica. Così Vincent Lindon si lamenta che non è possibile continuare a recitare e dirigere film mentre il mondo intero è in guerra, salvo ripensarci quando il suo agente gli comunica che Paul Thomas Anderson lo vuole nel suo nuovo film. Louis Garrell e Raphaël Quenard parlano con terrore di cancel culture e politicamente corretto, fino a che il secondo non ci prova con una collega nei bagni del set. Léa Seydoux piange al telefono con l’agente e la figlia lamentandosi di tutti e tutto. 

C’è naturalmente questo piacere un po’ stucchevole di disprezzare e disprezzarsi protetti dal contesto, i nomi sono tutti fittizi così da mantenere le distanze, e nell’ultima parte c’è un altro colpo di scena “meta” che ribalta ancora lo schema narrativo, contribuendo a quelle verniciate filosofiche che piacciono tanto a Dupieux. In tutto questo, la satira ha pure il tempo di centrare il bersaglio grosso del tempo che corre: il film nel film (rotture della quarta parete comprese) è girato dall’intelligenza artificiale che interagisce con gli attori nella forma di un impiegato che ripete frasi fatte («Ora torna in albergo e dormi almeno sette ore») dal monitor di un pc portatile. 

C’è una certa ammirazione di fronte a un cinema che si tiene in piedi – e comunque funziona – solo con lunghi carrelli di attori che dialogano in aperta campagna, e una tavola calda appena appena scenografata, di fronte a questa capacità di suscitare un mondo che è la stessa del teatro popolare, dove però si innestano briciole di puro cinema, la magia del piccolo effetto speciale, la specificità dei carrelli (sottolineata dal suggestivo finale). Poi, certo, servono tre divi per chiudere il cerchio dello show e farne un prodotto Netflix (è come se Favino, Accorsi e De Angelis recitassero assieme), un’industria incredibilmente matura alle spalle e un percorso creativo collettivo che si giova di cose come Chiami il mio agente!. Simpatico e un pochino superficiale.

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Foto: Diaphana Distribution

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