La zona di interesse, teatro mentale dei nazisti. La recensione del film di Jonathan Glazer
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La zona di interesse, teatro mentale dei nazisti. La recensione del film di Jonathan Glazer

Il regista di Birth e Under the Skin torna con un film incentrato su una famiglia nazista la cui casa confina con le mura di Auschwitz: un'opera agghiacciante e definitiva in un discorso teorico che non può avere fine

La zona di interesse, teatro mentale dei nazisti. La recensione del film di Jonathan Glazer

Il regista di Birth e Under the Skin torna con un film incentrato su una famiglia nazista la cui casa confina con le mura di Auschwitz: un'opera agghiacciante e definitiva in un discorso teorico che non può avere fine

La zona di interesse Glazer

La questione morale quando si gira un film sull’Olocausto è sempre prioritaria, investe ogni singola inquadratura, ponendo la questione di ciò che si decide di includere in campo e ciò che si decide di lasciare al di fuori di esso. Qualche anno fa era stato accolto con grande favore critico il film Il figlio di Saul dell’ungherese László Nemes: interamente ambientato nel campo di concentramento di Auschwitz, era quasi un saggio sul “pedinamento”, cioè lo stile di regia in cui la macchina da presa segue ossessivamente e a stretta distanza un personaggio, lasciando l’ambiente ai margini, sfocato e raccontato solo attraverso il sonoro.

Le ragioni di una scelta del genere, rispetto al processo storico di rielaborazione audiovisiva della Shoah, possono essere diverse: una forma di pudore, una scelta per così dire “tecnica” (ciò che non si mostra suggestiona maggiormente, vale anche per tanto cinema di genere) e la fiducia che decenni di immagini-trauma, assorbite attraverso film, documentari e libri di testo, abbiano sedimentato nello spettatore una memoria visiva che non necessita di essere ulteriormente sollecitata, ma solo evocata.

Proprio come Il figlio di Saul, The Zone of Interest di Jonathan Glazer, ispirato dal romanzo di Martin Amis e candidato a 5 premi Oscar, nonchè vincitore del Grand Prix Speciale della giuria allo scorso Festival di Cannes, compie la scelta di lavorare in modo programmatico sul “fuori campo”, inteso anche in senso letterale, ovvero “fuori dal campo di concentramento”, essendo la “zona di interesse” del titolo quella che si trova immediatamente al di là delle mura di Auschwitz, dove la famiglia del comandante Rudolf Höß e di sua moglie Hedwig vive in una specie di limbo che rappresenta un paradosso estremo: le mura esterne del campo, che fanno parte della loro proprietà, sono decorate con fiori e piante, e fronteggiano una piscina per bambini e un piccolo campo su cui vengono coltivate verdure fresche. Quando la madre di Hedwig viene a farle visita, guardando il giardino dice: «Questo è davvero il paradiso terrestre».

Facendo una scelta radicalmente diversa da quella fatta da Noah Baumbach con Rumore bianco di Don DeLillo, Glazer conserva di Amis l’idea e il contesto, ma rifiuta qualsiasi forma di mimesi linguistica e narrativa: Amis è verboso, salace e costruisce il suo romanzo su una fitta trama di incontri e cospirazioni domestiche, mentre il film di Glazer è raggelato, pochissimo dialogato e pressoché privo di trama – l’unico fatto rilevante è il trasferimento di Rudolf lontano da Auschwitz. L’idea è che la villetta degli Höß e dei loro tre figli piccoli sia il teatro mentale in cui accade la rimozione dei crimini nazisti: un non-luogo in cui la cenere dei forni crematori ricade spolverando le piante colorate o avvelenando le acque del vicino fiume. Un paradiso terrestre, appunto, costruito alle soglie dell’inferno.

A differenza di Il figlio di Saul, qui visione e sonoro sono in continuo conflitto e, mentre vediamo i bambini giocare sul tappeto di casa o lanciarsi sullo scivolo, sentiamo in sottofondo il rumore delle mitragliatrici, le urla di militari e prigionieri, il ruggito delle ciminiere e dei forni. Questa scissione piano piano lavora sulla psiche di tutti e colpisce in particolare i più piccoli, ma i momenti in cui viene esposta (i conati di vomito di Rudolf, il figlio che si copre le orecchie) sembrano quasi superflui, mentre sono affascinanti gli incubi della figlia, che sogna di piantare mele in una misteriosa trincea, o gli sguardi stupefatti della suocera che osserva nel buio della notte i fuochi delle ciminiere. O le minacce di morte buttate lì da Hedwig alla servitù proveniente dal campo, come fossero un commento sul maltempo.

Come detto, il film non ha una trama vera e propria: i personaggi del libro di Amis (forse) si affacciano qua e là, senza spiegazioni, come il membro del Sonderkommando incaricato di spiare la moglie, mentre il teatrino degli Höß viene sempre più messo alla prova dalla fisiologia dello sterminio. Alla fine la Storia buca le pareti della finzione, in un finale in cui le immagini dell’odierna Auschwitz, divenuta un museo, si confondono con le stanze inghiottite dal buio di uno dei palazzi berlinesi dove avviene una grande festa in onore dei comandanti di campo. Poi il film si “spegne” su uno schermo buio e un intreccio di misteriosi lamenti.

Glazer (Birth, Under the Skin) chiude così un’opera agghiacciante e decisiva in un discorso teorico che non può avere fine.

Foto: A24, Film4 Productions

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