Buonina la prima. L’atteso debutto alla regia dell’attore britannico di origini indiane Dev Patel, volto di The Millionaire e candidato all’Oscar per Lion – La strada verso casa, è arrivato nelle sale: Monkey Man ha subito suscitato curiosità per la sua evidente ispirazione action alla John Wick, ma allo stesso tempo cerca di avere una profondità drammatica ancor più marcata.
È la storia di Kid, anonimo combattente in uno squallido ring dell’altrettanto sporca e immaginaria città indiana di Yatana che si esibisce con indosso una maschera di scimmia che richiama la leggenda di Hanuman, una delle figure più importanti del poema epico indiano Ramayana. La furia che gli manca durante gli incontri è tutta riversata in un proposito di vendetta palese sin dalle prime scene: Kid (interpretato dallo stesso Dev Patel) cerca di infiltrarsi nella una sinistra élite che controlla la città, i cui vertici si ricollegano al trauma del suo passato. Il suo villaggio è stato distrutto, sua madre assassinata e il ragazzo avrà la sua vendetta, in questa vita o nell’altra (cit).
L’attore, figlio di genitori induisti di origini indiane emigrati dal Kenya a Londra, non nasconde affatto le varie aspirazioni dietro al film che ha scritto, prodotto, diretto e interpretato con il supporto della Monkeypaw Productions di Jordan Peele – in origine c’era Netflix dietro al progetto, ma il regista e produttore ne ha acquisito i diritti (e non per affinità “scimmiesche”, anche se fa sorridere la coincidenza) per destinarlo sul grande schermo. In una scena viene addirittura citato lo stesso John Wick e, quando compare addirittura un cucciolo di cane, la sensazione che il plagio sia dietro l’angolo è inevitabile. Dev Patel per la verità saccheggia artisticamente un immaginario vecchio come la storia del cinema: il guerriero solitario segnato dalla vita e in cerca di vendetta è un archetipo che trova riscontro ad ogni latitudine cinematografica, anche indiana.
Lo sguardo è però chiaramente lontano da quello della produzione locale e per questo meno respingente per il pubblico generalista occidentale, che di recente grazie a Netflix si è fatto affascinare da un film come RRR (vincitore dell’Oscar per la Miglior Canzone Originale) ma che ancora non è abituato a quel tipo di estrema commistione ed esagerazione di generi. Il cinema action in India e in generale nell’intera area del Sud-Est asiatico non manca – basti pensare all’indonesiano The Raid – ma fatto salvo alcune nuance nelle scene di combattimento, quello di Dev Patel è un film hollywoodiano travestito da action-drama indiano.
L’intenzione è chiara: sfruttare un genere popolare e di successo per portare il pubblico più vicino ad una cultura tanto ricca quanto complessa, in cui convivono decine di lingue e migliaia di divinità, puntando al cuore delle storture della quinta potenza economica globale senza nascondere niente. L’India di Monkey Man è sporca, povera, ancora profondamente religiosa e soggetta al sistema delle caste, in cui il Dio denaro guida le ambizioni ed esacerba le differenze sociali. Dev Patel cerca di mettersi dalla parte degli ultimi, che siano gli abitanti di un povero villaggio nella foresta o la comunità LGBTQ+ che vive in un tempio sacro alla divinità “trans” dell’induismo, Ardhanarishvara (sintesi delle energie maschili e femminili), indossando la maschera di quell’Hanuman la cui mitologia si estende dall’epica indiana fino ad arrivare alla mitologia cinese, ispirando la figura di Sun Wukong sulla quale sono basati personaggi come Goku di Dragon Ball e Monkey D. Luffy di One Piece.
Hanuman è un vanara, un uomo-scimmia che ha aiutato l’avatar di Visnù (Rama) a liberare la consorte Sita dal re Ravana. È la personificazione della saggezza, della devozione, della giustizia e della forza, mentre Visnù è la divinità maschile vedica che ha assorbito diverse altre figure divine come Puruṣa (la parte maschile della diade Ardhanarishvara), Prajāpati, Nārāyaṇa e Kṛṣṇa, protettrice del mondo e della volontà di intervenire per proteggere i suoi devoti. Una mitologia che calza perfettamente per delineare i contorni di un revenge movie come Monkey Man, che è tutt’altro che perfetto ma quantomeno ha delle intenzioni e uno sguardo chiaro, focalizzato e rende merito al debutto da regista dell’attore di The Millionaire.
I riferimenti alle divinità induiste tornano utili anche per spiegare perché, nonostante i meriti, Monkey Man è anche un film a suo modo limitato. Proprio come Visnù, cerca di assorbire in sé tante, forte troppe ispirazioni che lo rendono a tratti un action eccessivamente derivativo nel contenuto e furbo nella forma. Dev Patel ha di recente raccontato le enormi difficoltà vissute sul set, definito da lui stesso una mezza catastrofe ad ogni giorno di riprese: tra fondi a rischio, location saltate, camere rotte e figure chiave della produzione che hanno abbandonato il progetto, il regista ha dichiarato di aver messo praticamente chiunque della crew di fronte alla telecamera e di aver faticato non poco per portare a casa il risultato.
Monkey Man è costato circa 10 milioni di dollari, un decimo di John Wick ma anche dieci volte tanto The Raid. Dove non arrivano i mezzi può arrivare l’ingegno quindi, ma nel caso del suo debutto alla regia, siamo in una zona di mezzo: le scene action girate con un immancabile fotografia al neon e ambientazione urban grime ci sono, esplodono nel finale e fanno il loro dovere, ma l’eccessivo uso di camera a mano, movimenti a schiaffo e frenetici tagli di montaggio rendono le sequenze al limite del nevrotico (come d’altronde è il suo protagonista) e del comprensibile. L’impegno nelle coreografie c’è e si vede, ma l’artificio cinematografico è altrettanto evidente e presente nella messa in scena.
Resta comunque un signor debutto alla regia. Un film allo stesso tempo derivativo nelle scene d’azione, ma anche molto personale quando i giri del motore si abbassano e c’è bisogno di dare profondità al dramma. Dev Patel ha fatto di necessità Visnù (perdonate il gioco di parole) e se le premesse sono queste e le intenzioni resteranno quelle di mostrare uno spaccato culturale molto lontano dal sentore occidentale, saprà regalare al cinema belle storie con uno sguardo fresco e allettante.
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