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Nightmare Alley – La forma delle illusioni di Guillermo del Toro. La recensione

Il regista messicano torna con un film a metà tra noir e cinema di creature "umane troppo umane"

Nightmare Alley – La forma delle illusioni di Guillermo del Toro. La recensione

Il regista messicano torna con un film a metà tra noir e cinema di creature "umane troppo umane"

nightmare alley
PANORAMICA
Regia (4.5)
Sceneggiatura (3)
Interpretazioni (3.5)
Fotografia (4)
Montaggio (2.5)
Colonna sonora (3)

Quattro anni dopo la folgorante vittoria agli Oscar con La forma dell’acqua, il campione dei monster movie Guillermo del Toro torna con un film sulla carta apparentemente distante dalla sua poetica, che tuttavia il regista messicano riesce a riportare nei territori che gli permettono di esprimersi al meglio. Per La fiera delle illusioni – Nightmare Alley, Del Toro mette da parte il cinema di creature tout court, ma non abbandona la tanto cara analogia uomo-mostro.

Tratto da un racconto di William Lindsay Gresham del 1942 consigliato dall’attore feticcio Ron Perlman, del Toro racconta la parabola di un uomo tanto misterioso quanto ambizioso, Stan Carlisle (Bradley Cooper): prima si unisce ad un circo popolato di uomini-bestia e imbonitori, poi una volta carpiti i segreti del mestiere tenta la scalata fino a diventare il mentalista più famoso in circolazione. Il successo, inevitabilmente, gli fa perdere il contatto con la realtà e finisce col trascinare nei suoi deliri di onnipotenza icariani anche la dolce Molly (Rooney Mara), alla quale promette “il mondo e tutto ciò che contiene“. 

In Nightmare Alley, film di inganni verso gli altri e bugie a se stessi, il più grande prestigio lo opera proprio del Toro illudendo lo spettatore che non si tratti di un’altra riuscita storia di passaggio e trasformazione, di parallelismo tra uomo e creatura, tra bene e male incarnati in forme bestiali o mostruose. Dopo la premessa nell’ambiente “deltoriano” per eccellenza, il circo, La Fiera delle Illusioni si traveste da classico noir, sostenuto da Cate Blanchett nel ruolo di una stereotipata femme fatale e da un gioco delle parti tra chi guarda da fuori (il mentalista) e chi da dentro (l’analista). 

Tutta questa parte, identificabile con buona parte del secondo atto, risente di un eccessivo distacco, di una palese perdita di ritmo e l’inconfondibile firma di del Toro sbiadisce dietro a archetipi narrativi leggibili e scene sacrificabili. La terza parte del trucco – seguendo le regole espresse per esempio da Nolan in The Prestige – si svela in un finale di nuovo riconducibile alla poetica e ai temi che hanno reso del Toro la principale voce del cinema di creature.

Un’analogia qui concentrata tutta sul lato umano e senza diretta controparte fantastica, ma non per questo meno puntuale nel ricordare – proprio come nel Labirinto del Fauno e La forma dell’acqua – che il male non ha bisogno di assumere forme mostruose e che la morale alla fine della favola è che raramente ha possibilità di redenzione. 

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