Sono passati 35 anni dall’uscita di Predator, film di John McTiernan che ha contribuito ad arricchire non poco il genere sci-fi e che ha dato vita ad un longevo franchise composto ora da 5 film, 2 cross over, adattamenti letterari e videogiochi. Prey, disponibile su Disney+ dal 5 agosto 2022, riparte da questo immaginario ma al contempo lo riduce ai minimi termini, puntando dritto al cuore della saga.
Per la prima volta, i protagonisti non sono berretti verdi, mercenari, cecchini o altri personaggi che fanno parte dell’ambiente militare. Dan Trachtenberg (regista di 10 Cloverfield Lane) ha spostato la storia centinaia di anni indietro nel tempo, elemento che aveva sin da subito fatto storcere il naso a molti fan del franchise. Nell’America del 1700, l’aspirante guerriera comanche Naru (Amber Midthunder, Legion) deve vedersela con una misteriosa creatura mai vista prima, un altro alieno yautja come sempre intenzionato ad affrontare i più forti della Terra.
Se le motivazioni dietro al Feral Predator interpretato dall’ex cestista naturalizzato italiano Dane DiLiegro sono sostanzialmente le stesse di sempre, la prima novità di interesse arriva proprio dal confronto con la sua diretta avversaria: in Prey, Naru non è solo preda ma predatrice a sua volta. L’ambientazione nativo-americana permette infatti di aggiustare i rapporti di forza tra le parti perché fa della caccia un elemento naturale della vita stessa dei suoi protagonisti. Caccia intesa in senso pratico ma anche spirituale: si caccia per sopravvivere, ma anche per dimostrare il proprio valore alla tribù.
All’inizio di Prey, infatti, quello che sappiamo è che Naru è intenzionata a portare a termine la sua kühtaamia, un eroico rito di passaggio comanche che consiste nel cacciare una preda che a sua volta è intenzionata ad ucciderti. Il setting perfetto per l’incontro-scontro con un Predator, che allontana il franchise dalla muscolarità delle origini e proietta questo nuovo capitolo verso un altro genere, quello del cinema di creature.
Per certi versi questo prequel è più vicino a Jaws (con un tocco tattico alla Rambo) che agli altri film della saga: ad essere fondamentale è proprio il meccanismo che si instaura tra uomo e mostro, quell’ambivalente gioco di specchi per cui ognuno riflette nell’altro le proprie ambizioni, debolezze e in sintesi la propria natura. Tolta di mezzo la tecnologia, le granate e l’ambientazione militare o futuristica, Prey scaglia una freccia dritta al cuore dello scontro iniziato 35 anni fa tra il Jungle Predator e l’icona dell’action Arnold Schwarzenegger.
Dan Trachtenberg fa tutto questo con estremo mestiere e rigore: fatto salvo un paio di scene, Prey non è un film che brilla per soluzioni particolarmente innovative ma che al contempo è caparbiamente intenzionato a non lesinare sulla parte d’azione e sulla violenza, conservandosi il lusso di mostrarla nella maniera più fisica possibile nonostante il mezzo scelto (lo streaming, il piccolo schermo) avrebbe potuto limitarne l’espressione.
A Prey manca solo quel guizzo in più che avrebbe contribuito a renderlo ancora più efficace. Esiste già una versione doppiata in comanche, per esempio, ma è quel tipo di film che avrebbe potuto beneficiare di una scelta artistica ancora più netta ed essere girato tutto in lingua originale. Una vita di mezzo tra The Revenant e Apocalypto, forse, sarebbe stata ancor più interessante da vedere.
Il paragone tra Prey e il resto del franchise, invece, lascia velocemente il tempo che trova: condivide molto poco con i quattro film girati tra il 1987 e il 2018 (e ancora meno con i due cross-over con Alien) ma allo stesso tempo si dimostra più puro, lontano da velleità nostalgiche e più attento a centrare il punto: la caccia, lo scontro per la vita tra creature diverse, un archetipo così granitico che neppure il passare del tempo cinematografico riuscirà mai a scalfire.
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