Ad un certo punto, lungo la strada, Zack Snyder ha perso la bussola. Come si può passare dall’essere un regista acclamato per 300 e Watchmen al diventare oggetto di prese in giro proprio per l’estetica grazie alla quale si è imposto? Un mistero buffo che Rebel Moon – Parte 2: La Sfregiatrice non aiuterà di certo a risolvere, e anzi, ha il suono tipico dell’ennesimo chiodo sulla bara artistica del regista. Rigorosamente colpito in slow motion, sia chiaro.
Quattro mesi dopo essere atterrato su Netflix con la prima parte del suo nuovo kolossal sci-fi, Rebel Moon – Parte 1: Figlia del Fuoco, l’avventura di Kora (Aofia Boutella) e il suo tentativo di salvare il pianeta agricolo di Veldt dalle mire del Mondo Madre e del suo temibile emissario, l’ammiraglio Atticus Noble (Ed Skrein), prosegue. La parte del reclutamento è finita, ora tocca all’allenamento e quindi allo scontro finale. Un trama canonica che, come già detto, pesca a piene mani non tanto da Star Wars, ma da quegli stessi riferimenti che hanno ispirato la saga di George Lucas.
È in tutto e per tutto una seconda parte di I sette samurai di Akira Kurosawa ambientata nello spazio, che è già di per sé la trama del primo Star Wars – che si era lasciato ispirare anche da La fortezza nascosta. Mescolando questo immaginario al resto della fantascienza d’epoca, ma anche d’attualità (c’è un po’ di Dune e di Fondazione, altri due testi sci-fi protagonisti di questi anni), Zack Snyder ha illuso di voler regalare al mondo un nuovo immaginario, un grande kolossal che avrebbe rilanciato un genere che tuttavia, Dune – Parte 2 ci è testimone, è tutt’altro che morto e neppure malato. Quello che è rimasto della prima parte è la sensazione di un’opera estremamente derivativa che presentava gli immancabili stilemi di Zack Snyder, ovvero fotografia patinata, alternanza di campi larghi e primi piani e l’immancabile slow motion.
Rebel Moon – Parte 2: La Sfregiatrice è la copia carbone della primo film, ad eccezione del fatto che nella prima parte si dà per scontato che ormai i personaggi siano già entrati nel cuore del pubblico e che si possa riservare quindi il tempo minimo necessario ad approfondirli ulteriormente. In un segmento tagliato con l’accetta e incastonato in un momento quasi arbitrario del film, uno alla volta raccontano il proprio flashback e danno cioè le coordinate per capire cosa guida quei personaggi, quale sia il loro fatal flaw e perché dovremmo tenere a loro. Una rassegna così povera di novità che non produce alcun risultato emotivo: dall’inizio alla fine, continua a non fregarcene nulla di quasi tutti i sei/sette samurai messi insieme da Kora e di lei compresa, con il suo oscuro passato che la ricollega allo stesso nuovo impero galattico guidato dalle peggiori barbe e capigliature dai tempi di Jupiter’s Legacy.
Questo approccio un tanto al chilo alla sceneggiatura non è una novità per Zack Synder: lo ha dimostrato anche di recente in Army of the Dead, ma in qualche modo è ancora fresco invece l’approccio alle stesse sequenze di Watchmen e sono talmente diverse per sensibilità e attenzione che non ci si crede che sia lo stesso regista. Si potrebbe obiettare qui che l’approfondimento emotivo e drammatico dei personaggi non deve sempre essere fondamentale e che possono benissimo esistere film che puntano solo sull’azione, ma persino uno dei capolavori action del cinema come Mad Max: Fury Road è riuscito a fare molto di più con la metà delle linee di dialogo e del tempo a disposizione. Ma Zack Snyder non è George Miller o neppure George Lucas e per quel che vale neppure Georges Méliès per capacitò di creare nuovi mondi.
A rendere particolarmente irritante Rebel Moon – Parte 2: La Sfregiatrice, che rispetto al precedente capitolo può quantomeno contare su un terzo atto action più accattivante, ma non privo di banalità visive e pigrizie risolutive, è il contesto produttivo nel quale Snyder ha lavorato: non può in alcun modo accusare i piani alti di aver voluto controllare il suo progetto, di averlo castrato e rovinato, come fatto ai tempi di Justice League prima di riuscire miracolosamente ad ottenere una sua director’s cut. Da Netflix ha avuto carta bianca e centinaia di milioni per fare quello che voleva con Rebel Moon e il risultato sono due film che non si imporranno mai nell’immaginario sci-fi (come Army of the Dead per quello zombie) e una serie infinita di interviste in cui comunque anticipa la directors’ cut di questi due film.
Ma come, ha potuto fare quello che voleva e comunque vuole presentarci una versione diversa? È come se a un calciatore venisse accordato il permesso di tirare un rigore senza portiere e volesse comunque rifarlo perché gli va di colpirla di tacco o fare il cucchiaio. L’importante nei rigori è segnare e la sensazione è che Zack Snyder, con Rebel Moon, abbia invece tirato il pallone alle stelle. L’aspetto peggiore è che questa seconda parte non esaurisce e neppure amplia la storia: il Mondo Madre, il reggente Balisarius, la principessa Issa e via dicendo restano nomi e personaggi sullo sfondo, raccontati di sfuggita mentre restiamo incollati a vedere venti minuti in slow motion di contadini che raccolgono il grano. Con quattro ore e tutti i soldi a disposizione, Zack Synder non è riuscito a dare profondità al suo giocattolo.
Bisognerà quindi aspettare di vedere altri film per avere un quadro completo dell’intera storia, se non addirittura rivedere la director’s cut dei primi due – che conterrà imperdibili scene come ad esempio un rapporto sessuale con un alieno (c’è del sarcasmo) – e in un certo senso anche questo è un rimando, un omaggio, un plagio artistico a Star Wars: la prospettiva di vedere un altro Rebel Moon, ora come ora, è proprio una minaccia fantasma.
Foto: Netflix
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