Max (Lorenzo Richelmy) e Kyle (Ludovic Hughes) sono due riders acrobatici. Quando ricevono l’invito a partecipare a una misteriosa gara di downhill con in palio 250.000 dollari, accettano senza esitare, ma quando è ormai troppo tardi scoprono di doversi spingere oltre i limiti della loro possibilità fisiche e psicologiche. Li aspetta una corsa estrema per la sopravvivenza. Fatale, e senza ritorno.
Il cinema di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, come si suol dire, è poco italiano. I registi di Mine (ma anche produttori, direttori creativi, sceneggiatori e chi più ne ha più ne metta) lavorano per il mercato estero, il loro taglio editoriale è euforico e bulimico, non ha steccati nazionali, pensa in grande anche quando si chiude dentro la cornice di genere.
In piena continuità con la loro passione all’insegna dell’adrenalina, prende vita Ride (siamo in Nord America, ma il film è girato in Trentino), diretto da Jacopo Rondinelli, regista pubblicitario e di videoclip, perfettamente al servizio di un’estetica contemporanea, sgargiante, selvaggia (in sceneggiatura c’è anche Marco Sani, già al lavoro su Addio fottuti musi verdi e Suburra 2, che ha proposto l’idea originaria di un “Duel in bici”).
Il film è una danza spericolata e senza freni in bicicletta, tra acrobazie estreme, schermi interconnessi – è stato girato con 20 camere contemporaneamente accese e altrettanti punti macchina – disagio profondo e anche un po’ inquietante, dal sapore generazionale. A riprova che il cinema di genere, quando fatto bene, non è una gabbia ma il miglior portale verso qualcos’altro, un contenitore davvero politico, una traccia del tempo.
Nasce dall’idea pazza di coniugare filmati sportivi e Action-Cam, evoluzioni folli su due ruote e cinema narrativo. Con una sfacciataggine tale da dar vita a un prototipo assoluto, che non ha precedenti nemmeno all’estero, animato da un virtuosismo infantile e spericolato. Perché in fondo trasmettere energia, come si dice nel film, è il vero scopo di ogni show.
Non c’è davvero niente di intentato, in Ride, perché ogni sfida è cavalcata con sprezzo del pericolo, in sella a un turbinio impazzito dove non resta che pedalare (o morire). Il found footage, che di per sé è un dispositivo invecchiato tanto e male nel corso degli anni a causa di tanto horror scadente, qui trova incredibilmente nuova linfa, in una giostra macabra a due voci orchestrata come un Grande Fratello.
In essa, l’estetica dei reality show è passata al tritacarne e il monolite di 2001: Odissea nello spazio (onore al merito e soprattutto al coraggio, davvero) si fa smartphone interattivo, veicolo di un’iperconnessione satura e mortifera. A conti fatti un raddoppiamento del freestyle su cui si basa il film, tra mappe virtuali, damigelle in pericolo, momenti horror alla The Blair Witch Project o alla Eyes Wide Shut.
I linguaggi sono intersecati («Tutto sarà connesso per sempre… »), in Ride, e non potrebbe essere altrimenti: il film è un apparato audiovisivo in cui se qualcosa si vede online allora si è sopravvissuti, altrimenti vai a sapere. Anche perché, perfino al cospetto della morte, l’unica cosa che conta non è salvare la pelle ma avere telecamere super-accessoriate e abbastanza performanti per riprenderla e per riprendersi.
Per trasformare la propria vita in morte al lavoro da dare in pasto ai pixel e alle visualizzazioni sui social network e soprattutto su Youtube, monetizzando alla svelta (proprio come il film, b-movie che mira a una grande cassa di risonanza mediatica e che coi media, per ragioni di coerenza interna, si sporca le mani).
A conti fatti siamo davanti a un piccolo Mago di Oz action in versione drogata (la citazione iniziale, alle porte del viaggio all’inferno su strada, è emblematica), in cui è impossibile scollegare il videogioco dalla realtà, l’impulso dal bisogno, la potenza dall’atto. Un’orgia di fantasia, come la definisce il protagonista Lorenzo Richelmy, che però è allo stesso tempo inebriante e tossica (con un cattivone, il Dark Rider, a metà tra Ken il guerriero e Mad Max, e al servizio di una sensibilità alla Black Mirror).
Perché nel suo malessere strisciante c’è perfino del perturbante e non c’è quasi volto umano che non si faccia schermo, che non sia confuso e sovrapposto con una superficie digitale a fargli da avatar letale. In una perenne dissolvenza incrociata, alla ricerca di uno spessore teorico. Dal montaggio delle attrazioni, a quello della allucinazioni. Enjoy the Ride.
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