Still nel senso di fermo, qualcosa che Michael J. Fox non riesce a fare da ormai trent’anni. Ma anche still come ancora, nel senso di tutt’ora qui, presente, vivo e pronto a godersi le piccole cose di una vita per certi versi lontana da quel folgorante spaccato degli anni ’80. Nella doppia lettura del titolo del documentario di David Guggenheim dedicato alla star di Ritorno al futuro e disponibile su AppleTV+, è contenuto anche il senso umano di una vicenda in grado di commuovere tutti – tranne il diretto interessato.
Si parte dalle piccole cose: una mano sul volto, un tremolio percepito come estraneo al proprio corpo. È l’inizio di una malattia, il morbo di Parkinson, che ha inevitabilmente finito per sconvolgere la vita di uno degli attori più in voga negli anni ’80 e ’90, così parabolica da contenere in sé tutti gli elementi drammaturgici perfetti per essere raccontata senza esagerazioni o vezzi artistici di sorta. La storia di Michael J. Fox è quella di un ragazzino minuto che dal Canada si trasferisce nella terra del cinema per sfruttare a suo vantaggio i propri limiti: è basso, molto basso, quindi perfetto per interpretare bambini e giovani adolescenti nelle sit-com.
Il successo è arrivato non senza difficoltà, punteggiate nel documentario non solo dalle parole dell’attore ma anche da immagini che mescolano insieme vere scene dei suoi lavori e ricostruzioni ad hoc, utilizzando una controfigura di quinta che per movenze ricalca alla perfezione il passo incerto del Michael J. Fox visto in Casa Keaton e soprattutto Ritorno al Futuro. La trilogia di Robert Zemeckis gli ha cambiato la vita una prima volta, lo ha reso la star più popolare e desiderata. E lo sapeva: «Dovevate compatirmi quando mi sentivo il re del mondo, non adesso, recitavo una parte» ha riconosciuto.
All’apice della sua parabola, ecco quel piccolo dettaglio, quel tremolio alieno al dito e la diagnosi del morbo di Parkinson. Da quel momento, è iniziata al seconda delle tre vite di Michael J. Fox: Still non si concentra mai sui pietismi, sui moti di commozione naturali nei confronti di una malattia degenerativa terribile, che ne ha sfigurato il corpo ma irrobustito lo spirito, non senza fatica. Racconta invece i suoi tentativi di salvare le apparenze, scostando di poco il velo di Maya che al tempo non ha permesso a nessuno di riconoscere alcuni segnali, il modo in cui sul set dei suoi film degli anni ’90 e della sit-com Spin City tentava di nascondere i sintomi – sia della malattia che dell’alcolismo nel quale era precipitato.
Senza più nessun filtro, diventano chiare le difficoltà che ha vissuto nel silenzio, nella negazione. «La vera malattia sono i segreti», dice ad un certo punto, dando così inizio all’ultima e attuale fase in cui si trova: quella dell’accettazione, dell’impegno sociale, del riuscire ad adattarsi ad una situazione sì terribile, ma dalla quale è ancora possibile ricavare qualcosa di buono e per cui valga soprattutto la pena vivere. Michael J. Fox lo ammette: la malattia gli ha permesso di essere presente nella vita, dando nuova profondità e valore alle cose.
Come viene sottolineato in Still, in nessun momento lo si sente cedere al dolore, perché è consapevole di essere una fonte di ispirazione per tante persone nelle sue stesse condizioni. «Non voglio mandare tutto a putta*e» dice mentre fa esercizi, mentre cerca di controllare quello che può del suo corpo. È la presa di consapevolezza che tutto quel successo, quella vetrina dorata nel quale è stato esposto, ora servono per fare del bene, per rispondere all’amore della gente restando lo spiritoso e scanzonato ragazzo d’oro di quegli anni. «Il Parkinson mi fa ancora il cu*o. E non vincerò. Perderò» ha detto in una recente intervista, il suo corpo è scosso da spasmi e si è rotto varie ossa cadendo a terra, ma lo spirito e la volontà sono incrollabili.
Nei giorni in cui in Italia si parla molto del modo in cui Michela Murgia stia affrontando un tumore al quarto stadio che le sta lasciando solo pochi mesi di vita, la storia di Michael J. Fox si segnala come un ulteriore arma contro la retorica della battaglia da vincere o perdere, della malattia come racconto del dolore. «Il cancro non è una cosa che ho, è una cosa che sono» ha detto la scrittrice italiana, una frase che declinata col Parkinson vale anche per Michael J. Fox – che è ancora lui, ancora qui, still.
Foto: AppleTV+
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