Supersex: sesso e volentieri. La recensione della serie Netflix con Alessandro Borghi
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Supersex: sesso e volentieri. La recensione della serie Netflix con Alessandro Borghi

L'attore interpreta l'icona del porno mondiale Rocco Siffredi in una serie che si muove tra il sacro e il profano

Supersex: sesso e volentieri. La recensione della serie Netflix con Alessandro Borghi

L'attore interpreta l'icona del porno mondiale Rocco Siffredi in una serie che si muove tra il sacro e il profano

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Basta davvero solo il nome: Rocco. Per gli italiani, è tutto quello che serve perché, a livello inconscio, talvolta adolescenziale, dal fondo della mente arrivi subito chiara l’immagine pruriginosa e ammiccante del volto di Rocco Antonio Tano, al secolo Rocco Siffredi. Lo status di icona è testimoniato da questa consacrazione antonomasitica che lo ha portato non solo ad essere uno dei pornoattori più famosi nella storia, ma anche a meritarsi uno spazio su Netflix dal 6 marzo 2024 con una serie che ne racconta le origini: Supersex.

Una origin story, come Iron Man o Superman. Il parallelismo tra uomo e supereroe viene tracciato subito dalla serie creata da Francesca Manieri e diretta da Matteo Rovere, Francesco Carrozzini e Francesca Mazzoleni, perché Supersex vuole raccontare proprio la storia di come un giovane e a suo modo timido ragazzo di Ortona abbia scoperto di avere un super potere in grado di condizionare la sua esistenza. È leggendo la rivista di fotoromanzi interpretata da Gabriel Pontello che Rocco ha sentito “la chiamata dell’eroe”, che ha abbracciato il suo destino, abbandonando la provincia per abbracciare la lussuriosa e perversa Parigi.

Il passaggio da uomo a mito raccontato da Supersex viene però approcciato dalla fine, dal momento in cui Rocco è già Siffredi e nel 2004 annuncia il ritiro dalle scene (poi mai realmente avvenuto). Accerchiato, prende un’aspirante attrice e inizia con lei un rapporto sessuale che di intimo non ha niente, così esposto agli sguardi voraci di chi in lui vede e forse vedrà sempre e solo questo aspetto: «Siamo soltanto pezzi di carne per loro» viene fatto dire ad Alessandro Borghi, all’ennesima prova di assoluta mimesi grazie alla quale riesce a sparire dietro al personaggio, assottigliando il confine tra finzione e realtà – impresa resa qui ancora più intricata dal fatto che quello rappresentato è a sua volta un ulteriore personaggio, il Rocco Siffredi divo del porno.

In questa dicotomica sta il senso e l’interesse della serie Netflix: è nato prima l’uomo o il mito? E c’è modo per separare i due in maniera netta, quando di mezzo c’è una parte così importante e insieme socialmente scandalizzante dell’esperienza umana? Dargen D’Amico, giusto per fare un esempio, indossa sempre occhiali sul palco per distinguere quell’aspetto performativo della sua vita da quando è semplicemente Jacopo. Un lusso che Rocco Tano non ha, perché ha fatto proprio del suo inconfondibile corpo e sesso il biglietto da visita della sua esistenza.

È comunque in questo spazio che si muovono i tre registi, alternando sacro e profano, lirico e carnale, alto e basso, mente e corpo. Da un lato scopriamo le (romanzate) radici familiari del protagonista e di come queste abbiano giocato un ruolo importante nella sua vita, dall’altro veniamo invitati a perderci nelle suggestioni della carne tramite l’uso di un registro che va dal greve (talvolta persino umoristicamente ridicolo) al solenne senza apparente soluzione di continuità che non sia il volerci costantemente tirare da una parte e dall’altra, come se ad un passo dall’intimità ci venisse (senza giudizio) rinfacciato che nella nostra mente Rocco Siffredi è una cosa ben precisa e l’accesso a certe aree più personali deve quindi essere per forza dissonante, produrre uno scarto tra l’idea che abbiamo e la realtà (immaginata).

Un’operazione, quella di Supersex, che non si discosta troppo da quanto fatto da Andrew Dominik con Blonde, il racconto crudo e a tratti cupamente perverso non tanto della vera Marilyn Monroe ma dell’immagine residua che di lei è rimasta. Come per la diva americana, il nome Rocco Siffredi è ingombrante (e di nuovo, dal fondo della mente, ecco quelle battutine facili…) e condiziona l’idea che abbia un’umanità che preceda la sua iconicità.

Matteo Rovere, Francesca Mazzoleni e Francesco Carrozzini riescono a dare spessore e interesse ad un racconto ed un ambiente forse ancora troppo spesso banalizzato, dando risalto al contesto familiare senza tuttavia rinunciare agli aspetti più pruriginosi che rendono Supersex una delle serie più spudorate dell’anno. Il sesso c’è, è centrale e mai celato, ma acquista un significato che va oltre e che viene veicolato tramite una messa in scena quasi sorrentiniana per impatto visivo, narrativo e ricercatezza lirica.

Non tutto nella serie è all’altezza della sua apparente premessa artistica: non lo sono certi comportamenti che oggi farebbero parte di una narrazione sulle relazioni tossiche e la misoginia più spinta, non lo sono alcune prove attoriali che di fianco ad Alessandro Borghi arrancano non poco e alcune pigrizie di sceneggiatura, ma quantomeno Supersex ha un’idea precisa di chi e cosa voglia mettere al centro della scena. Il personaggio Rocco Siffredi, nudo e alla mercé del pubblico, libero di concentrare lo sguardo sul suo leggendario pene o su tutto il resto.

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Foto: Netflix  

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