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The Apprentice: la storia di Trump, il caimano americano. La recensione da Cannes 2024

Sebastian Stan interpreta una giovane versione del tycoon in questa origin story di un grande villain, che sa però di occasione persa

The Apprentice: la storia di Trump, il caimano americano. La recensione da Cannes 2024

Sebastian Stan interpreta una giovane versione del tycoon in questa origin story di un grande villain, che sa però di occasione persa

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The Apprentice è il film più commerciabile del Concorso di Cannes 77, quello che segue i codici più diffusi nel mainstream: è la origin story di un grande villain, con un mentore luciferino e un discepolo predisposto al lato oscuro. Solo che in questo caso il Palpatine della situazione è Roy Cohn (Jeremy Strong), avvocato senza scrupoli ammanicato con la mafia italoamericana, e Anakin Skywalker è Donald Trump (Sebastian Stan), costruttore rampante nella New York degli anni ‘70.

All’inizio del film vediamo Trump a tavola con tutta la famiglia: Donald e i fratelli sono succubi del padre Fred, fondatore dell’impero immobiliare di famiglia, un uomo che apostrofa il figlio maggiore, un pilota di aerei linea, come «la vergogna della famiglia, un conducente di autobus con le ali». Per uscire dal cono d’ombra del genitore, Donald cerca di garantirsi l’amicizia di Cohn, che accetta di aiutarlo, intravedendo in lui un uomo capace di scalare le gerarchi della città: «Non mi devi pagare, quello che mi interessa è la nostra amicizia». Il potere di Cohn è basato su relazioni di convenienza e scambi di favore, e in Trump riconosce la prossima pedina del suo scacchiere.

La prima parte del film è anche la più riuscita, perché Jeremy Strong è uno di quei pochi attori (come Philip Seymour Hoffman, giusto per fare un esempio) che hanno, oltre al talento, una presenza magnetica e ti incollano gli occhi allo schermo. Mentre lo aiuta a chiudere un’indagine pubblica, che accusa i Trump di razzismo nella assegnazione degli alloggi, Cohn insegna a Donald le tre regole fondamentali per avere successo: attaccare sempre, non ammettere mai nulla, dichiarare sempre di aver vinto. Man mano che Trump sale la scala sociale, quelle regole resteranno la sua bussola, e quando alla fine del film (che termina nel pieno degli anni ‘80 e dell’amministrazione Reagan, poco dopo l’inaugurazione della Trump Tower) il futuro presidente viene intervistato da un giornalista del New Yorker, le citerà come la sua fonte di ispirazione.

Per oltre metà film The Apprentice è una specie di bizzarro buddy movie in cui quasi si fa il tifo per quest’uomo senza scrupoli, che abbatte un ostacolo dietro l’altro a suon di mazzette e faccia tosta. La scrittura è brillante, gli attori fantastici, la prospettiva ambigua, la messa in scena della New York anni ‘70 convincente: alcune scene, come il giovane Trump che gira per le case popolari a riscuotere affitti o il primo incontro tra Trump e Cohn nel night club, si stampano nella memoria. Nella seconda parte, mentre esplode l’emergenza AIDS, Cohn si ammala ed esce lentamente di scena: le azioni di Trump diventano più respingenti e il fascino del cattivo lascia spazio alla repulsione.

Oltre che senza scrupoli, Trump appare meschino e stupido (contraddicendo in parte quanto lasciato intendere all’inizio), ingrato e violento. Viene anche messo in scena lo stupro domestico alla moglie Ivana (Maria Bakalova), nonostante l’accusa sia stata da tempo sconfessata dalla stessa ex-consorte. Qui il film si sgonfia un po’, non certo per il cambio di prospettiva ma perché la strada che lo sceneggiatore Gabriel Sherman e il regista Ali Abbasi (Holy Spider) scelgono di imboccare è quella del gossip, della satira di costume o addirittura della presa in giro triviale, piuttosto che quella di affondare il dito nella piaga della corruzione o continuare nel tracciamento storico.

Ci sono le battute sul colore della pelle («Stai diventando arancione»), sulla repulsione di Trump per l’attività fisica, e sequenze che si concentrano sulla liposuzione o sul trapianto di capelli, mentre il quadro generale, con i debiti accumulati per estendere il suo impero immobiliare ai casinò di Atlantic City, finisce un po’ in secondo piano. Il finale, con il ritorno in scena di Cohn, garantisce un ultimo sussulto e poco più. Sembra la conferma che quella a cui abbiamo assistito fin dall’inizio è una commedia, una satira divertita, e resta il dubbio di un’occasione persa.

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