The Substance, opera seconda di Coralie Fargeat, è stata presentata ieri (domenica 19 maggio 2024) in Concorso a Cannes, trasformando la sala in cui era proiettata in uno di quegli happening che solitamente accadono nei festival di cinema di genere, come Sitges: risolini di sconcerto, urla di entusiasmo, boati di disgusto, infine applausi a scena aperta. Il film occupa la stessa casella che tre anni fa occupava Titane (poi Palma d’Oro): opera seconda di una giovane e talentuosa regista francese, è un body horror femminista costruito per accumulo di stimoli sensoriali.
Ma se il film di Julia Ducournau aveva un piglio molto contemporaneo, una attitudine “post umana” che lo isolava da qualche parte nel panorama delle avanguardie, The Substance è invece un’opera imbevuta di cinefilia, quasi vintage, che cita/ricicla senza pudore una decina (senza esagerare) di film e maestri, da Cronenberg (ovviamente) fino a Brian Yuzna, passando per Brian De Palma e La Cosa di Carpenter. E soprattutto Kubrick, di cui vengono prese di peso alcune delle scenografie e delle soluzioni fotografiche più iconiche di Shining.
In realtà però, in quest’opera seconda di Fargeat c’è anche tantissimo della sua opera prima, Revenge, lo scatenato rape&revenge con Matilda Lutz che l’aveva rivelata. Non solo perché la palette cromatica è la stessa, con una predilezione per i colori primari e caldi, ma perché il modo in cui Fargeat osserva e riprende Margaret Qualley nella prima parte del film è pressoché identico al trattamento riservato sei anni prima a Lutz: la donna come incarnazione dello sguardo maschile (il “male gaze” di cui tanto si parla ultimamente), il corpo come sommatoria aritmetica della sue parti, estremità e protuberanze.
Diamo un po’ di contesto: la protagonista del film è Elizabeth Sparkle (Demi Moore), una ex stella di Hollywood relegata a condurre un programma di aerobica, e poi – per raggiunti limiti d’età – nemmeno più quello. Il direttore di Rete (Dennis Quaid, in consapevole overacting) la liquida con un pranzo e attiva il casting per sostituirla. Sparkle a questo punto si chiude nella sua casa sulle colline di Hollywood, depressa e spaventata, fino a che non riceve un misterioso messaggio che la invita a provare la “sostanza” del titolo, un trattamento che le consentirà di ritrovare la “parte migliore di sé”.
E qui il film molla subito gli ormeggi (anche se immaginare quanto si spingerà in là è impossibile, e continua ad esserlo fin quasi ai titoli di coda…): il trattamento infatti consiste nella duplicazione di Elizabeth, dalla cui spina dorsale viene espulsa Sue (Margaret Qualley), un clone giovane, sexy e spregiudicato. L’unica regola da seguire è l’alternanza, una settimana a testa nel mondo: mentre Sue è attiva, Elizabeth giace priva di sensi sul pavimento del bagno, e viceversa. “Ricordati che tu sei UNA”, ammonisce un cartoncino contenuto nello starter pack del trattamento, ma per Sue sarà sempre più difficile lasciare spazio a Elizabeth e gli effetti collaterali non tarderanno a manifestarsi.
Come in una versione gore di Barbie che procede al contrario, la donna si fa bambola per compiacere lo sguardo maschile. Accadeva anche in Revenge ma in quel caso, dopo lo stupro, arrivava la consapevolezza, la ribellione e la catarsi. Stavolta Fargeat è molto più spietata: il potere hollywoodiano incarnato dai soliti executives e stakeholders, vecchi maschi bianchi arrapati, è così stereotipizzato da anestetizzare la satira. È un argomento esaurito, si capisce che la fa incazzare ma la annoia. È con la sua (doppia) protagonista che la regista non ha pietà, con l’odio che prova per se stessa, con la dipendenza che ha sviluppato per il mondo che la disprezza.
In questo Dottor Jekyll e Mr.Hyde al tempo del botulino e della chirurgia plastica, la domanda che viene posta (prima suggerita, poi detta, ripetuta, strillata, infine fatta deflagrare in una apoteosi gore che, di recente, ha paragoni solo nel finale del Suspiria di Luca Guadagnino) è: quanto siamo disposte a farci del male per compiacere lo sguardo altrui? The Substance non è un film sottile, anzi: è sfacciato. Porta avanti la sua missione contando su due protagoniste incredibili, specie Demi Moore (meriterebbe una nomination all’Oscar), che usano il proprio corpo con una fiducia e una ferocia che parte evidentemente dall’interiorizzazione del messaggio (è un film “col messaggio”, c’è poco da fare).
Ed è divertente, se avete lo stomaco per questo genere di cose. Se avete visto Revenge, torniamo là, sapete di che si parla: a Fargeat piace costruire le sue montagne russe e lanciarci giù in picchiata, usando i corpi come un campo di battaglia. Denuncia, cinefilia, psicanalisi e umorismo bollente: un film “sul MeToo” radicale come ne abbiamo visti pochi.