Vero come la finzione del wrestling. The Warrior – The Iron Claw, biopic sportivo e drammatico diretto dal semi-sconosciuto Sean Durkin è arrivato sul grande schermo per raccontare al grande pubblico chi è stata la famiglia von Erich, dinastia del mondo del wrestling statunitense la cui storia è composta in parti squilibrate da trionfi e tragedie. Non un’altra storia americana, tuttavia, ma un ulteriore tassello che dimostra come gli Stati Uniti stiano superando il loro proprio modello fondativo: l’American Dream.
A interpretare l’unico von Erich ancora invita, Kevin, è un muscolosissimo Zac Efron: è lui il baricentro di The Warrior, tramite lui veniamo introdotti nella famiglia e tenuti in qualche modo al riparo dalle derive più “americaneggianti” del dramma prodotto dalla A24. Quella dei von Erich è infatti una storia complessa e contorta: Fritz Von Erich (Holt McCallany) è stato un campione del wrestling di diverse federazioni locali, ma non è mai riuscito a conquistare il titolo NWA World Heavyweight Championship. L’ambizione che ha guidato la sua vita, come abbiamo visto di recente in King Richard – Una famiglia vincente, si trasmette di padre in figli ed è così cinque dei sei suoi von Erich sono diventati a loro volta lottatori (il primogenito è morto durante l’infanzia).
A salire con più convinzione sul ring è stato proprio Kevin, seguito da David (Harris Dickinson), Kerry (quel Jeremy Allen White diventato nuova icona sexy mondiale), brevemente Mike (Stanley Simons) e persino Chris, figlio più piccolo dei von Erich che tuttavia è stato tagliato completamente dal film. La legge dei grandi numeri è stata dalla loro ed eventualmente i successi sognati dal padre Fritz sono arrivati, ma sulla famiglia è sempre gravato il peso di una maledizione: ai von Erich succedono brutte cose, dice Kevin alla sua giovane fiamma interpretata da Lily James, sembra solo un mito ma diventa qualcosa di più tangibile.
Nella storia dei von Erich, inseriti nella WWE Hall of Fame nel 2009, ci sono infatti tragedie continue: incidenti, inspiegabili e fatali malori, ma soprattutto suicidi. Quella che ha inizialmente i connotati di una storia che riflette i valori del sogno americano, si trasforma ben presto nella sua stessa negazione. Il vero scontro non avviene sul ring, le cui dinamiche a metà tra sport e dimensione performative sono solo accennate (non è un nuovo The Wrestler), ma è in larga parte generazionale: Fritz von Erich ha vissuto secondo l’idea che attraverso il lavoro, il coraggio e la determinazione sia possibile raggiungere grandi risultati, che addirittura la sua famiglia dovesse essere la migliore in assoluto per controbilanciare quella che a tutti gli effetti sembra una maledizione.
Il sogno americano è un concetto largamente esplorato nella storia del cinema: da Quarto Potere a Scarface, passando per La ricerca della felicità o il più recente Whiplash (che Goffredo Fofi definì «una favola per gonzi di destra» proprio per sottolineare l’insistenza del modello proposto), la fascinazione che volere è potere e che il potere è volontà è intrinseca nel tessuto sociale a stelle e strisce, ma soprattutto le nuove generazioni di cineasti si stanno dando da fare per portare sul grande schermo film che puntino a superare questo paradigma, che ne mettano anzi in luce le contraddizioni e le storture.
Film come Il petroliere o First Man, per esempio, hanno preso le distanze dal sogno americano, mostrando quanto sia labile il confine tra ambizione e ossessione. Lo sa bene il Kevin von Erich di Zac Efron, che sin da subito mette in dubbio i metodi educativi del padre e più volte sembra restio a perseguire il sogno che gli è stato imposto. La maledizione dei von Erich sembra quindi essere dovuta in egual misura da un triste destino e da un danno procurato da loro stessi, soprattutto dal padre. L’artiglio di ferro (the iron claw) non è solo la signature move dei von Erich, ma anche la morsa nella quale la famiglia è tenuta dal padre, una presa alla testa che non consente altro tipo di pensiero, altro tipo di ideale – emblematica in questo senso la tragica storia del giovane Mike.
The Warrior ha spesse volte un approccio semplicistico – o per meglio dire caustico – alle ragioni sottese dietro alle tragedie dei personaggi, ma ha il merito di inserirsi perfettamente in un nuovo orizzonte culturale: l’American Dream non è più luccicante come un tempo, i sacrifici necessari per ottenere certi risultati vengono messi costantemente in discussione in favore di sanità mentale e un approccio meno tossico alle proprie ambizioni, complice il fatto che altri temi e macro-fenomeni mondiali (crisi economiche, ambientali e sanitarie) stanno costringendo sempre più le nuove generazioni a fare i conti con necessità di tipo comunitario più che personale, a valorizzare altri tipi di benessere rispetto a quello ego-riferito.
Un dramma forse imperfetto nella messa in scena, ma che riesce a trasmettere l’idea che la vera finzione non è tanto quella del ring, quanto quella insistentemente recitata dal padre al focolare domestico, dove i figli sono spinti alla competizione, a superare sempre i propri limiti, a trattenere le proprie emozioni. Tutte cose che sembrano ormai appartenere ad un vecchio mondo emotivo, ad un anacronistico approccio alla vita e ad una generale disillusione. «Ecco perché lo chiamano sogno americano – ha detto George Carlin – perché devi essere addormentato per crederci», e quanto pare ora molta gente è più che mai sveglia.
Foto: A24
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