C’è un filo sottile che lega l’Italia degli anni ’80 alla Thailandia del 2018 e tanti altri esempi nel corso della storia recente dell’umanità. Proprio come il Bel Paese si fermò per giorni per assistere sgomento alla tragedia di Vermicino e di Alfredino Rampi, così il mondo ha trattenuto il fiato per la sorte dei ragazzi della squadra di calcio bloccati per quasi tre settimane in una grotta allagata, vicenda ora raccontata da Ron Howard nel film Tredici vite – disponibile su Prime Video.
Nel suo simil docu-racconto sull’incidente di Tham Luang, il regista di A Beautiful Mind e Il Codice da Vinci parte proprio da quel 23 giugno 2018, quando dodici ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 17 anni e il loro allenatore si sono addentrati in una grotta nella provincia di Chiang Rai. Le forti piogge monsoniche hanno colto di sorpresa il gruppo e il tentativo di salvarli ha mobilitato oltre 5.000 persone provenienti da decine di Paesi nel mondo. Un fulgido esempio di solidarietà umana che ha portato – fortunatamente – ad un insperato lieto fine.
Ron Howard si concentra proprio su questa parte della storia: nonostante il livello del cast guidato da Viggo Mortensen e Colin Farrell, l’attenzione è rivolta a tutta la macchina dei soccorsi, senza personalismi o ego-maniacali tendenze hollywoodiane a fare quadrato attorno al singolo grande eroe. Le due star – assieme a Joel Edgerton e Tom Bateman – si mettono al servizio del film esattamente come i sommozzatori inglesi che interpretano hanno dato tutto per riuscire nell’incredibile impresa di salvare quelle vite.
Dal governatore della regione thailandese all’ingegnere idraulico che si è occupato di deviare l’acqua dalla montagna per consentire maggiori chance di trovare e salvare i 12 ragazzi, tutti hanno il loro momento ed è Howard stesso a farsi da parte – anche registicamente – per metterli in luce e permettere alla semplice spontaneità di una grande storia di emergere. Tredici vite evita l’approccio scelto per esempio da Oliver Stone in World Trade Center e non si occupa quasi mai delle giovani vittime bloccate nella grotta, depotenziando così il film di una carica empatica che sarebbe probabilmente risultata tanto semplice da mettere in scena quanto pleonastica.
L’operazione che ne risulta è un film molto tecnico giocato sulla tensione scenica, fatta di lunghi momenti in stretti cunicoli sott’acqua e il lento scandire del tempo che ricorda a più riprese la fatica fisica dietro all’impresa (dall’ingresso della grotta al punto dove erano finiti i ragazzi passano 7 ore e mezza di immersione) e che evita quindi di soffermarsi stucchevolmente sulla componente emotiva. Tredici vite è sostanzialmente il tentativo – ben riuscito – di Ron Howard di consegnare l’incidente di Tham Luang alla storia cinematografica nel modo più puro e naturale possibile, così che venga immortalato e ricordato per sempre.
Un filone che spinge a riflettere nuovamente sul concetto e sul valore della cosiddetta tv del dolore, in Italia nata proprio in occasione della morte di Alfredino Rampi. In quei giorni la televisione non si occupò d’altro e andò in onda la prima diretta non-stop di un caso di cronaca, che fece inevitabilmente emergere pregi e difetti della società. Da un lato l’incredibile sforzo collettivo e sociale che quelle immagini seppero suscitare – replicato e amplificato a livello mondiale dall’incidente di Tham Luang – dall’altro i timori che tale attenzione potesse facilmente sfociare in una malsana morbosità verso lutti, tragedie e altri disastri.
Le vicende di Alfredino, dei ragazzi thailandesi, così come dei minatori cileni nel 2010 o del piccolo Rayan caduto in un pozzo in Marocco a febbraio 2022, sono tutti validi esempi del potenziale della tv (o del cinema) del dolore, un’arma carica nelle mani dei mass media. Senza quell’attenzione mediatica, neppure il cinema forse avrebbe dimostrato interesse ad adattare questo tipo di racconto e ciò è in parte mostrato anche da Ron Howard in Tredici vite.
Al regista però il tema interessa ma non troppo: è solo un contorno, talvolta una distrazione e un pericolo. Ciò che conta è solo mettere in scena nel modo più claustrofobico possibile lo sforzo sovrumano che quelle persone hanno fatto per salvare tredici vite, titolo che ricorda in maniera schiettamente intima e spirituale qual era – e quale sarà sempre – la posta in gioco in casi come questi.
Foto: Prime Video
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