Red Zone - 22 miglia di fuoco
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Red Zone – 22 miglia di fuoco

Il re dell'action a stelle e strisce Peter Berg ritrova Mark Wahlberg per una serrata spy story

Red Zone – 22 miglia di fuoco

Il re dell'action a stelle e strisce Peter Berg ritrova Mark Wahlberg per una serrata spy story

Red Zone - 22 miglia di fuoco, la recensione
PANORAMICA
Regia (3)
Interpretazioni (2)
Sceneggiatura (2.5)
Montaggio (4)
Fotografia (2.5)
Effetti speciali (2.5)

La squadra speciale Red Zone è incaricata di portare a termine una missione pericolosa e potenzialmente fatale per l’America: proteggere un informatore compromesso, i cui segreti potrebbero sventare degli attacchi terroristici di portata mondiale. 22, in particolare, sono le miglia che l’agente della CIA James Silva (Mark Wahlberg) e la sua luogotenente Alice Kerr (Lauren Cohan) devono percorrere per scortare l’incandescente testimone fuori dal paese, tra squadre d’assalto pronte e a colpire e ostacoli apparentemente insormontabili.

Peter Berg, il regista di di Battleship, è uno dei campioni del cinema d’azione contemporaneo: un cineasta dalla vocazione solida e industriale, capace di spingere sul pedale dell’acceleratore come pochi altri e di donare ai propri prodotti una risonanza spettacolare di altissimo livello. In bilico tra blockbuster e divertimento, tra radiografia dell’America e senso – esteso, condiviso, della collettività. Un sentimento che nei suoi film, in un modo o nell’altro, è sempre presente.

Non fa eccezione la sua ultima fatica, Red Zone – 22 miglia di fuoco, che prende il canovaccio del consueto film spionistico e lo porta alle estreme conseguenze. Lo fa soprattutto grazie a un ritmo forsennato e a un montaggio esplosivo, velocissimo, in cui la rapidità del pensiero cinematografico coincide con la velocità d’esecuzione. Berg, che è anche un attore di consolidata esperienza e si è ritagliato un’oasi creativa singolare in questo genere di produzioni, in questo caso affronta di petto la CIA e l’Intelligence americana in generale, tra traiettorie infuocate, evocate fin dal titolo, e risvolti intricati.

Al centro del progetto c’è ancora una volta Mark Wahlberg, che ha già lavorato con Berg in Lone Survivor, Deep Water: Inferno sull’oceano e Boston – Caccia all’uomo: un sodalizio che li portati a esplorare le molte declinazioni, pratiche e concrete, dell’eroismo americano. Per il loro quarto film insieme i due però hanno alzato l’asticella, facendo del personaggio del protagonista di Transformers un demiurgo dall’intelligenza indisponente e corrosiva, che riserva sullo spettatore monologhi sull’America contemporanea allo stesso tempo densissimi e ironici, esilaranti e privi di compromessi.

Tale impianto dei dialoghi si accosta all’estetica del film, convulsa e senza un attimo di tregua (con tanto di botte da orbi e sabotaggi), producendo un contrasto piuttosto originale, una frizione rivelatrice. Quest’aspetto potrà senz’altro risultare frastornante per una buona fetta di spettatori (anche perché il meccanismo di tanto in tanto sfugge di mano), ma ha dalla sua un furore incendiario e un brio contagioso che, nonostante l’alto tasso di compiacimento, si muovono con uguale scioltezza dall’ambientazione indonesiana alla minaccia old school rappresentata dai russi.

Ma non manca nemmeno, in Red Zone, com’è facile immaginare, la politica americana contemporanea, tra prese in giro di Steve Bannon, evocato con tono sornione, e la giustapposizione di Barack Obama e Donald Trump, inquadrati ora come manichini su un davanzale ora come figurine votate a strette di mano casuali. Senza timore di accostare due presidenti molto diversi, naturalmente, ma piuttosto on la consapevolezza, sbandierata esplicitamente e provocatoriamente, che essere fantasmi (e sparire dietro le insegne del potere) è la forma più alta di patriottismo, specialmente in tempi di populismo imperante in cui tutti credono di sapere tutto ma non sanno niente.

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