Eccellent’e imprevista sorpresa d’Amenabár che, dopo l’orrido peplum d'”Agora” (2009) in cui la sua laicità deragliava in un’invettivita fondamentalista contro l’oscurantismo religioso e a favore d’uno scientismo protofemminista, sembra aver dedicato un quinquenni’abbondante per studiare l’epistemologia dell’ultimo secolo così da riproporsi più aggiornat’e agguerrito che mai. Ha delus’i suoi fan con un flop d’incassi, il 16% (media voto 4.6/10) su RT, il 32% su Metacritic, 5.7/10 su IMDb. Forse cercavano un horror soprannaturale alla “L’esorcista” (1973) o “The Conjuring” (2013), oppure quell’approfondimento fra massoneria, messe nere, sètt’e riti satanici sfiorato dall’ultimo Kubrick (“EWS”, 1999) e che le due stagioni di “True Detective” parevano prometter’e mentr’invece l’hann’evitato quanto la peste bubbonica. “Regression” mette le cart’in chiaro sin dal titolo: lo spazio per fideistiche credenze sull’incarnazione del Male è concesso da una scienz’immatura ch’usa strument’infondati, in questo caso basati su un’inconscia suggestione di massa aka isterica psicosi collettiva. Dunque un Amenabár lucido ed equilibratissimo, il qual’in nome della miglior autocritica filosofica sonda limiti e recessi dello pseud’o falso sapere scientifico. È dura colpire due piccioni con un’unica fava, e il demolire all’unisono “fides et ratio” quando son’entrambi privi del dubbio metodic’o sistematico può irritare tanti sia fra il pubblico che fra i recensori. “Cinema che parla della difficoltà del mantenere un pensier’autonomo in un mondo che, mediaticament’e socialmente, impone le proprie idee omologat’e standardizzate per aderirvi volenti e non”: l’Atom Egoyan di “Devil’s Knot” (2013) aveva già tentato qualcosa di molto simil’e con esiti paragonabili. Su IMDb la bella rece d’un utente paragon’il film a un contraltare di “Spotlight” (2015): stess’incedere cogitabondo, analogo twist final’e denuncia dell’altra faccia della medaglia, la “cacci’alle streghe” o addirittura al Demonio personificato. Ps: la “svolta narrativa stupidament’anticipata a metà pellicola, quand’una cabina telefonica non farà altro che svelare ‘il trucco’”, può esser’inequivocabilmente spiegata soltanto dop’il twist degl’ultimi 6 minuti. Con tutt’il rispetto per Calderón de la Barca, il regista spagnolo ci continu’a dire: “Apri gli occhi” (1997).
© RIPRODUZIONE RISERVATA