“Remember” (id., 2015) è la quindicesima pellicola del regista canadese Atom Egoyan.
‘Remember’ , di ricordi e di incontri dove la memoria senile rende labile la storia tra un diniego, una presenza, una lettera e un pianoforte che segna l’epilogo.
Rincorre il titolo in un inizio di efficacia e un diversificato posto tra un colloqui senile, una fuga per cercare e un figlio che non sa nulla del padre fuggito dal centro ricovero anziani. Un signore quasi novantenne che non è più lucido e facilmente non connette tempi e luoghi.
E un bambino riesce a colloquiare con un (e il) passato in treno mentre Zev cerca la strada della sua vita senza (quasi) esitare all’uscita della stazione dove l’adolescente ritrova la famiglia.
Mentre Max aspetta una telefonata per non far deragliare Zev e il suo cercare il passato mentre è il figlio che che non sa cosa fare del padre disperso e senza una ragione ‘itinerante’.
Esasperante è il ricordo di un numero sul braccio che cerca nel suo cervello: una pistola da comprare, una dogana da superare con documenti senza data e una patente (chi sa se il regista si fida del pubblico per un quasi novantenne un documento di guida appare ‘pretestuoso’) che è un lasciapassare per un Mexico sconosciuto. E l’America sul torpedone appare sconfinata per un ‘demente’ girovago e senza meta.
Momento e arriva un taxi, Zev attende molto per incontrare un padre; arriva il figlio poliziotto. Parole e paure, simbolo e spavento, pantaloni bagnati e pallottole che aprono il sangue. I ricordi si scontrano con l’abbaiare di un cane da guardia. La verità è sempre aperta e la scena madre diventa una mattanza in ‘casa sconosciuta’ perché mai chiedere nome dell’ospite (e qui è ordinario di demenza in entrambi) per scucire il volto di una morte mai conosciuta.
Boomerang è l’effetto che tradisce e i doppi con le loro rughe trasudano viltà per uno spettatore che aspetta epiloghi senza curiosità alcuna con un buio dello schermo che dovrebbe aleggiare rimorso e auto-condanna fino ancora alla sedia a rotelle di Max che percorre la storia sua particolare (per chi e come nei tanti modi dementi per raggiungere una ragione quasi ‘assolutoria’ e per nulla deplorevole).
Epilogo a troppe chiusure dove la pistola gioca in più stanze e nel giardino: ecco come lo stile ‘Hitchcock’ tanto accattivante declamato nel ‘poster del film’ si perde in minimo con cadute e stile non ‘fermo’.
Rimanere alla fine per essere un po’ delusi e quantomeno uscire per pensare che ciò che osservi è un ricordo senza dei precisi numeri (falsi come falsa forse il cervello in barlume di due quasi novantenni). Auschwitz nominato più volte risuona lontano nello schermo e non cattura l’angoscia vera di chi guarda. Gli incontri appagano ma dopo un’ora il film deraglia in modi non prettamente stordenti.
Zev e Max (Christopher Plummer e Martin Landau) sono maestri nel disporre I propri personaggi con un Bruno Ganz a fianco: da vecchi la recitazione è pur sempre un mestiere da imparare ancora. Tutto in grande spolvero.
La regia di Atom Egoyan appare chiusa e mai emotiva: non si ha la sensazione di una visione a grande schermo.
Voto: 6+.