In poche parole The Revenant è un grosso film, quello che consacra Alejandro Gonzalez Inarritu tra i migliori registi in circolazione, forse (tra quelli) di sempre, e quello che sarà valsa, finalmente, l’ambita statuetta a Leonardo DiCaprio.
Una lezione stilistica di classe, una fotografia spettacolare e l’estenuante prova del protagonista sono i punti cardine di una pellicola dura; un viaggio nel tempo certosino e pionieristico tra la natura incontaminata, un impatto visivo che lascia più volte a bocca aperta. La minuziosità di un regista che abbandona i claustrofobici spazi di uno sceneggiato da Oscar, Birdman, per addentrarsi con la solita disarmante facilità in in una lontana realtà coloniale, fatta di immense distese selvagge e pochissima civiltà. La pioggia di candidature ai prossimi Academy non è certo casuale.
Inarritu afferra il mito di Hugh Glass, trapper (esploratore e cacciatore di pelli) che a cavallo tra gli anni Settecento e Ottocento divenne noto per una sopravvivenza incredibile dopo essere stato abbandonato dai compagni in fin di vita, e lo affida a DiCaprio, talento indiscusso e affamato di Oscar. In un dipinto limpido, una natura pura e immacolata, candida come la neve che la circonda, scorre invece una storia di fuoco, fatta di onore, rabbia e vendetta.
Racconta la leggenda di Glass, figura chiacchierata per via di un legame intimo con i nativi Pawnee dai quali ha avuto una moglie e un figlio, di uno scontro con un orso grizzly al quale scampa per miracolo, e del successivo status di Revenant – letteralmente “morto che cammina” – che lo trascina ad un drammatico inseguimento verso colui che gli ha ucciso il figlio, lasciandolo solo ad un destino inevitabile: un Tom Hardy glaciale nei panni dell’avido cacciatore Fitzgerald.
La storia passa attraverso gli splendidi scenari del Nord Dakota, ribolle di fermento quando occorre pigiare sull’acceleratore e si prende il suo tempo, scandisce, quando tocca a DiCaprio prendere in mano le redini e far vedere quanto sia impervio trasmettere sensazioni struggenti. Da qui il grande merito dell’attore di sapere immedesimarsi in un ruolo che lo ha portato a sfiorare, e sforare, limiti fisici (si parla anche di riprese con la febbre alta e un’autentica bronchite perfettamente udibile durante il film) pur di dedicarsi alla causa.
Ad enfatizzare un’interpretazione talmente toccante ci vuole, però, la mano dell’artista. Se DiCaprio è bravissimo, Inarritu è semplicemente sublime nel dedicare intensi primi piani e lunghi piani sequenza, quasi a ricordare, mai come in questo caso, la massima cinematografica “si recita prima con gli occhi che con le parole”. La sofferenza negli sguardi degli attori, provati dalle impervie condizioni fisiche e climatiche, è autentica, con DiCaprio due spalle sopra gli altri per la mole di eventi a cui va incontro. Ma è tecnicamente che Revenant è un autentico gioiello per gli occhi. Non a caso il direttore della fotografia è Emmanuel Lubezki, due volte premio Oscar per Gravity e Birdman, appunto. I giochi di luce e l’intensità delle riprese brillano per una sana dose di genuinità a cui si deve sempre aggiungere il tocco di Inarritu, che unisce tutte queste eccellenze, tecniche e artistiche, per rendere l’esperienza visiva trascinante e totale. Ne conseguono scene dall’altissimo impatto qualitativo quali la lotta contro l’orso in primis ma, soprattutto, la straordinaria battaglia iniziale, una delizia visiva, feroce e caotica, da farne una lezione scolastica per i registi a venire.
In due ore e mezza Revenant non sbaglia un colpo. Si riassapora un antico lato western affascinante che si lascia guardare con un pizzico di malinconia. A parità di colpo d’occhio, c’è da registrare un comparto sonoro elevato, non solo per il delicato accompagnamento musicale ma anche per le puntigliose minuziosità ai quali Inarritu non può certo sottrarsi, che sia il crepitare di un passo sul ghiaccio o uno sparo nel bosco. Tecnica, ripetiamo, che assieme all’ottima interpretazione artistica fruttano un equilibrio perfetto e proiettano Revenant tra i titoli che faranno la storia, a prescindere da statuette d’oro o meno.
Ma DiCaprio è inevitabilmente lanciato verso un Oscar di compensazione, purtroppo più per una questione di “somme passate” e mancanza di veri concorrenti che per indiscutibile merito, anche se è impossibile restare ciechi di fronte alla strepitosa prestanza fisica a cui si è sottoposto.
Come lui altrettanto bravi la testa calda Tom Hardy, antagonista coi fiocchi, e Domhnall Gleeson, nei panni del capitano Henry. Buona anche la prima prova drammatica di Will Poulter (Mazerunner).
Quello che ha confezionato Inarritu è un film di spettacolo e qualità, perchè al di là del contorno mozzafiato, l’anima narrativa resta sempre in primo piano. Attraversa la pelle e arriva alle ossa, trasuda rabbia, sofferenza e agonia. Ci fa perdere le speranze ancora prima di Glass, ci abbandona all’incoscienza del freddo con la neve che ci ricopre fino a seppellirci. Ma inneggia alla sopravvivenza, all’amore per i propri cari. Ad una redenzione interiore che non alza bandiera bianca fino a che ci sarà ancora un ultimo respiro. Fino ad arrivare all’ultimo duello, la definitiva resa dei conti che ha creato il mito.
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