Revenant - Redivivo: la recensione di aleotto83
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Revenant – Redivivo: la recensione di aleotto83

Revenant – Redivivo: la recensione di aleotto83

Ci sono film talmente impegnativi che portano lo spettatore via dalla sua realtà quotidiana, dal mondo esterno e dallo smartphone, generalmente lo restituiscono circa tre ore dopo, esausto e provato, ma arricchito interiormente.
“The Revenant” rientra in questa categoria, che il pubblico in cerca di svago leggero dovrebbe saper evitare, di esperienze cinematografiche estreme, e di certo estenuanti, ad opera di registi che ambiscono a creare l’arte oltre le consuete formule narrative.
Alejandro Gonzáles Iňárritu, il regista di origine messicana che lo scorso anno ha conquistato i premi più importanti per il capolavoro “Birdman”, imbocca di nuovo la strada della gloria realizzando una pellicola completamente diversa, incentrata sulla inarrestabile volontà di sopravvivenza dell’essere umano.
La trama è ispirata alla vera storia dell’esploratore Hugh Glass, che nel 1823 fu dato per morto e abbandonato dai propri compagni cacciatori di pelli sul fiume Missouri dopo aver subito il violentissimo attacco di un orso grizzly; l’uomo, con le ossa rotte e senza cibo né armi, percorse più di trecento chilometri tra le mille insidie della natura e degli indiani in rivolta, pur di raggiungere il campo base della spedizione, ma soprattutto per vendicarsi dell’uomo che gli portò via il figlio.
Per il regista questi pochi episodi scarni, seppure eccezionali, sono lo spunto per creare una propria odissea visionaria, in cui portare con sé una troupe di coraggiosi ed alcuni attori disposti a rinunciare alle comodità degli studios per immergersi senza compromessi nei gelidi ambienti naturali scelti per le riprese.
Girate tra gli ultimi mesi del 2014 e la prima metà del 2015, sfruttando solo l’illuminazione data dalla scarsa luce naturale dell’inverno nelle foreste canadesi fino allo sciogliersi delle nevi, le riprese sono state poi ultimate in Argentina, facendo lievitare ulteriormente i costi, già gonfiati dalla pretesa di Iňárritu di voler filmare le scene in sequenza cronologica per potervi dare ancora maggior realismo. Con uno svolgimento del genere, viene da credere agli attori, Di Caprio in testa, che hanno dichiarato di aver vissuto l’esperienza lavorativa più difficile della propria carriera per la necessità scenica di doversi immergere e riemergere innumerevoli volte da acque gelate, trascinarsi sulla neve, mangiare carne cruda e avere contatti forzati con carcasse di animali; di certo, almeno, tanta sofferenza ha aiutato non poco la resa interpretativa!
Ci voleva una sfida del genere per Leonardo Di Caprio, il migliore attore della sua generazione, per imbarcarsi in un ruolo estremo, diverso da tutti gli altri personaggi che ha interpretato nella sua strabiliante carriera, senza manierismi e praticamente senza dialoghi, che gli ha richiesto di tirar fuori tutta la forza interiore e di poterla esprimere soltanto attraverso la recitazione fisica, principalmente con gli occhi e i grugniti di dolore.
Amatissimo a ragione da un pubblico ormai abituato ad un talento che non ama riproporsi uguale a sé stesso, forse questa volta per Di Caprio può arrivare anche il più ambito riconoscimento che l’Academy, in un accanimento ottuso che ha pochi precedenti, ha voluto negargli finora.
Certo, il ruolo di Glass non è la migliore interpretazione di Leo in senso tradizionale, bensì un’ ulteriore grande prova di credibilità per l’attore quarantunenne che, se affidata ad altri, avrebbe potuto sfociare nel ridicolo involontario.
L’esperienza di sopravvivenza di Glass, fin dalla violentissima scena dell’attacco dell’orso è, per gran parte del film, una trama parallela a quella degli altri personaggi, su di tutti il traditore Fitzgerald, interpretato da un cattivissimo Tom Hardy che, pur non essendo la star, conferma ancora una volta la sua bravura sorprendente, ma anche il rosso Domhnall Gleeson che, nonostante l’ ancora acerba carriera, ha partecipato a tre delle produzioni più acclamate dello scorso anno (“Ex-Machina”, “Star Wars – Il Risveglio della Forza” e questa).
Difficile paragonare il risultato finale a qualche altro film esistente, forse giusto ad alcune imprese impossibili di Terrence Malick, che ha impiegato le doti uniche del direttore della fotografia di “Revenant” Emmanuel “Chivo” Lubezki nel proprio “The Tree of Life” del 2011, il quale però ha poi vinto due premi Oscar di seguito Con Alfonso Cuaron per “Gravity” e con Iňárritu per “Birdman”, e che potrebbe tranquillamente aggiungerne un terzo a febbraio per le atmosfere da sogno, o da incubo, che ha saputo creare filtrando i colori della natura in questo “Revenant”.
Il merito di aver trasformato in opere d’arte i cieli notturni delle foreste innevate lo condivide con quel pazzo del regista, che in questo film si è votato completamente alla ricerca della bellezza attraverso la composizione dell’immagine, con volontà pittorica, a far da contrappunto alle carneficine degli uomini.
Tecnicamente, Iňárritu supera ancora sé stesso confezionando sequenze eccezionali, come l’iniziale attacco indiano all’accampamento degli esploratori ed i movimentati inseguimenti, che sono talmente audaci e ben fatte, cucite insieme come se fossero senza stacchi, da non capire come siano state realizzate.
Nel suo complesso quindi si tratta certo di un film pesante, lunghissimo ed ambizioso, ma è comunque un’esperienza cinematografica potente, destinata ad esser ricordata a lungo.

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