Revenant - Redivivo: la recensione di Mauro Lanari
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Revenant – Redivivo: la recensione di Mauro Lanari

Revenant – Redivivo: la recensione di Mauro Lanari

Con o senz’Arriaga, González Iñárritu abbandona di nuovo l'”hyperlink cinema”, la struttura narrativ’a tassello/incastro che dovrebbe designare la “Babel”-ica (2006) globalizzazione postmoderna mentre di fatto è antica quanto la nonlinearità nello storytelling. La cultur’occidentale si fonda sulle due radici della tradizione greca e giudaicocristiana, le quali propongono prototipicamente, archetipicamente, esemplarmente un’avventura così impervia e irta d’ostacoli disumani da deformarsi in prova di sopravvivenza, e ciò che patisce il protagonista di “The Revenant” è appunto “un’Odissea”, “un Esodo” d’oltre 3mila miglia, “un Calvario” con visioni grünewaldiane del Crocifisso, un “percorso di guerra” che minimizza il parkour a trastullo ludico per fannulloni urbani. “Revenge movie” e “survival movie”: il 1° non so quando sia stato sdoganato dall’ineccepibile critica di giustizialismo vendicativo ammantandosi da categoria artistica, separazione schizoide fra etica ed estetica; dett’altrimenti: ora c’è chi si sente legittimato a godere dell’iniquità. Il 2° pone una serie di domande: a che si sopravvive? Come si sopravvive? Perché si sopravvive? In un inventario esaustivo della difficoltà d’esistere s’arriva giocoforza alla panbelligeranza cosmica: Hugh Glass, impersonato da un DiCaprio dispost’a sacrificare bellezza, voc’e addirittura dieta vegetariana pur di vincere l’agognato Oscar, lotta oltre l’ultimo sangue contro uomini, animali, paesaggi insidiosi, ostili, selvaggi. Biopic grandguignolesco (“al confronto Tarantino è un cinepanettone”, cit.), in apparenza sulla falsariga della realtà descritta, in pratica eccessivo se comparato all’Herzog di “Grizzly Man” (2005) che sepp’omettere proprio la scena più cruenta, e anch’al Kubrick d'”Arancia meccanica” (1971) che si lasciò sedurre dalla tentazione di seguire con la mdp a spalla l’assalto nella clinica dimagrante come González Iñárritu durant’il duello conclusivo, solo che l’autore messicano aggiunge, dopo la pugnalat’alla gamba, uno schizzo di sangue sull’inquadratura, pomodor’o CGI che sia. Per giunta il suo virtuosistico iperrealismo è a tal punto concentrato sull’epopea del trapper dell’800 da ingabbiarne gesti e gesta in quella singola specifica personalità, e ciò soffoca ogni respir’allegorico che salga fin’alla vetta dell”Ecce homo”. La qualità registica non lo rende pedante quanto la Jolie d'”Unbroken” (2014), ma nemmeno capace d’un’astrazione onnicomprensiva quanto lo Chandor d'”All Is Lost” (2013), con Redford chiamato sui titoli di coda “Our Man”, l’umanità al completo per un’antropologia universale. Sul “come si sopravvive?” Glass è pressoché un supereroe da cinecomic, non integerrimo nel difendersi dalla legge della giungla adottandon’i metodi. Sul “perché si sopravvive?” l’obiezioni fioccano a volontà: per rendere giustizi’alla morte del figlio Hawk (assente nel romanzo), la propria (in)giustizia e dopo 156 minuti? Capisco i critici che hanno trovat’il film banale e trascurabile, privo di motivazioni valide, sostanziose, rilevanti e significative. L’artefice del magnifico cortometraggio incluso in “11 settembre 2001” (2002), cioè il González Iñárritu di gran lunga migliore, fors’avrebbe continuato a esplorare l’idea della solidarietà tragittuale ch’unisce l’intera realtà: “polvere siamo e polvere torneremo” (Genesi 3, 19 II Qohelet 3, 20: http://www.laparola.net/wiki.php?riferimento=Genesi+3,+19;Qohelet+3,+20 & https://www.biblegateway.com/passage/?search=Genesis+3:19;+Ecclesiastes+3:20&version=VULGATE; la recente morte di Bovie suggerisce la versione “Ashes to Ashes”: https://www.youtube.com/watch?v=CMThz7eQ6K0). Invece questo qui no, per nient’affatto. Anzi: con idee simili l’Academy non lo premia, l’ha scoperto appen’un anno fa.

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