Se il lugubre, funebre ma comunque magnifico e ben poco compreso Tre piani era un film “senile squallido” (parafrasando Ecce bombo), Il Sol dell’Avvenire, il lavoro di Nanni Moretti in cui la tenerezza e lo sgomento si incontrano e convivono di più in assoluto, è un film senile teatrale, vitale, infantile, circense, addirittura felliniano. Un’opera nostalgica e meravigliosamente auto-indulgente, nella quale lo spirito perduto e rattrappito della rivoluzione è musicalmente orientato verso la leggerezza e la poesia dell’amarezza, del disincanto, della noia e della tristezza senza speranza, del rimpianto («Mi ricordo, mi ricordo…», dice Giovanni richiamando a sé il mantra autistico di Palombella rossa).
Il Sol dell’Avvenire è un concentrato di melliflue ossessioni morettiane del tempo andato, per far rivivere il Michele Apicella che fu, già ucciso e sublimato in più occasioni, sotto le mentite spoglie dolciastre («Ma se sono delizioso») del Giovanni che è, e del Nanni che è rimasto. Un film per ritrovare, per ritrovarsi («Un rito è un rito, dev’essere sempre lo stesso, sennò va tutto male»), camminando su una corda tesa, con il terrore di precipitare giù, ma anche con malinconia lancinante. Un affettuoso e auto-riepilogativo film catalogo, un commovente e spudorato mixtape spietato e caramelloso, tanto che per il fan morettiano di stretta osservanza è davvero come trovarsi al cospetto di un fantomatico MCU (Moretti Cinematic Universe).
Tutt’altro, dunque, che un film sovversivo («Pierre, non esagerare, dai!», dice Moretti al produttore francese truffaldino e sopra le righe interpretato da Mathieu Amalric, con cui gira in monopattino per Piazza Mazzini a Roma come ai tempi di Caro diario), ma un carosello amarissimo eppure struggente e trascinante, assemblato per esorcizzare lo smarrimento per gli anni che passano, la polverosa retorica giornalistica del film-testamento, i fantasmi del presente che si riverberano in quelli del passato (l’invasione russa dell’Ucraina iniziata nel febbraio 2022 viene evocata inevitabilmente dal film che Giovanni sta girando, incentrato sulla storia del segretario di una sezione del PCI, interpretato dal ritrovato Silvio Orlando, che deve capire come reagire all’invio dei carri armati sovietici a Budapest nel 1956).
Un dispositivo per fare i conti con l’imbarbarimento anti-etico dello stile e la violenza senza peso del mercato dell’audiovisivo contemporaneo che «fa male al cinema, fa male alle persone» (ricordando il faticoso e anti-celebrativo monito anti-violenza di Breve film sull’uccidere di Krzysztof Kieślowski, con il suono orrendo e osceno delle pantofole e della vecchiaia (citando The Father di Florian Zeller con Anthony Hopkins), con la prigione mortifera e asfittica di una recita della recita già vista chissà quante altre volte. Per sottrarsi ad una tragica visione del mondo, «così piatta e consumata», attraverso un film «sulla morte dell’arte e del comunismo, dell’amore e della morale, insomma proprio un film sulla fine di tutto quanto», come gli dicono, con somma sorpresa e sbigottimento di Giovanni, i co-produttori coreani.
Nel personaggio della moglie produttrice di Giovanni, Paola, interpretata da Margherita Buy («Sì però tu non sei come tutti; non lo eri, prima»), si rispecchia tutto il vuoto pneumatico dell’incapacità di fare un film sui cinquant’anni di vita di una coppia «con dentro tante belle canzoni italiane». E, come spesso accade nel Moretti maturo, il film nel film “da farsi” è un sintomo flagrante e psicoanalitico di sogni non realizzati né realizzabili: vettori essi stessi di sguardo e desiderio, ma anche di nevrosi e rammarichi, di spericolati azzardi e gigantismi ormai impossibili da mandare in porto, di infinite piscine e stazioni della vita da attraversare per tornare a casa («Il film da Il nuotatore di Cheever avrei dovuto girarlo quarant’anni fa, quand’ero magro, quand’ero in forma»), di futuri tanto utopici («Non possiamo tornare indietro, a come stavamo ieri?») quando distopici.
La scena più inebriante, travolgente e straziante de Il Sol dell’Avvenire, in un film che inebriante, travolgente e straziante (oltre che irresistibile) lo è di fatto dall’inizio alla fine, è probabilmente quella in cui la canzone Sono solo parole di Noemi è l’ingranaggio da caricare e far deflagrare (come la chiave di un carillon, o il filo dietro la schiena di un giocattolo al quale non si smette di essere affezionati) per veicolare ancora una volta l’energia corale di un set, per poter urlare una volta di più “Motore!” a squarciagola, per continuare a mettere le parole in bocca a una ragazza innamorata e ferita (una magnifica e luminosa Blu Yoshimi). In buona sostanza per allontanare il pensiero del suicidio e proseguire a girare, a (r)esistere e, anche con lo stesso cappio al collo di sempre, a vivere. Anche in un presente in cui non resta che fare la storia con i “se” e le parole, un tempo importanti, sono oggi appunto solo parole, da pronunciare in attesa di quando ci sveglieremo e cominceremo a piangere.
«Avere l’impressione di restare sempre al punto di partenza. E chiudere la porta per lasciare il mondo fuori dalla stanza. Considerare che sei la ragione per cui io vivo. Questo è o non è. Amore»
Foto: Sacher Film, Fandango, Rai Cinema
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