Recensito per la prima volta nel Maggio d’un mattino “equivoco” del 2o10… Ridley Scott e Russell Crowe, squadra che vince non si cambia, ma i risultati non sono gli stessi de “Il gladiatore” (che detto per inciso non è affatto un capolavoro, ma un godibilissimo entertainment di puro spettacolo).
Scott non vuole “raccontarci” delle prodi gesta dell’arciere più famoso della Storia, o perlomeno quello più mitizzato, vuole raccontarci l’antefatto, e cioè ciò che sta alla base proprio del mito, appunto, di come Robin sia nato leggenda.
E dunque, affidandosi alla mirabile ma poco appassionante sceneggiatura di Brian Helgeland, fa un passo indietro.
Il vero film di Robin Hood inizia proprio mentre finisce quello di Scott, lasciato alla fantasia e all’immaginazione dello spettatore (anche se il regista ha garantito che, se riscuoterà successo, ci sarà un seguito…).
Il film si lascia vedere, in alcuni punti è divertente, Cate Blanchett è una Lady Marian (qui Marion) inedita, di glaciale ma tenera Bellezza, combattiva e anche androgina, nello stile della sua figura (non a caso è stata spesso chiamata a interpretare ruoli “maschi-li”), la battaglia finale vale il prezzo del biglietto (lo ammettiamo, anche se vorremmo disprezzarne il funambolismo ruffiano e il montaggio virulento che poco si addice al romanticismo per cui Robin Hood è famoso), ma Russell Crowe è troppo “gladiatorio”, non possiede l’atletico dinamismo e la vitalità sbruffona di Errol Flynn, né la matura malinconia di Connery, e neanche la simpatia, eh sì, di Kevin Costner, che non pretendeva almeno di essere ricordato come il “migliore” della folta schiera d’interpreti. E’ possente, Russell, è massiccio, è serioso, e poco incline alla burla, un Robin Hood legnoso senza carica emozionale.
Come il film di Scott, che non trascina, si arena nella sua tronfia magniloquenza di belle immagini e scorci paesaggistici di castelli e praterie, di cavalli e fanti, di vessilli e corone, per nulla “leggero” come invece imporrebbe la tradizione.
Alla fine si rifugiano a Sherwood, e vissero tutti (in)felici e contenti.
Voto: 6 e mezzo.
2 Febbraio 2012
Viene trasmesso, ancora in Tv, e, dopo una serata immalinconita in una neve “nodosa” alle gioie delle mie iridi, la “macha” destrezza di questo cavaliere, dal fascino vigoroso di Crowe, negli scatti-scattanti di Ridley Scott e della sua sibillina luminosità dalla portentosa melodia musicale del dolce carezzarlo dell’inoltrato primo squarcio notturno, nella Mezzanotte pura di calori a me intimi, si svela sotto altri occhi.
Più “svenevoli” a goderlo, com’è usanza per chi ha sempre viva la febbre della gagliofferia, in nuce ardimentosa anche in questo film, lucidato di castelli di York e d’un re a “troneggiar” tirannico e ingenuo, nel “vilipendio” d’uno scettro a lui “farlocco”, macabra “gemellarità” con quel Riccardo crociato di ben più famosa ed eroica, santa intrepidezza.
Gli occhi di Cate Blanchett, prima sbiaditi di “straziante” disillusione, poi issati nell’amore per un battagliero “sconosciuto”, nella scoperta, quasi virago, d’un sé celato, come dico io, dai geli dell’anima.
E, nell’infatuazione che la “infata”, brucia il fremito d’una riscossa ch’è prima, pulsante elettricità d’una vividezza che parve estinta.
Robin Hood, incenerito da una immisericordiosa “corona”, s’ergerà nella retorica leggendaria di fiammelle tra i boschi
Uno specchio, e Amleto ride d’una “disgrazia” ch'”arrochì” labbra dalla cutanea “marmellata” nei limpidi impeti dell’immaginazione sovrana, anche quando, ribelle, è arcuata, nostra nostalgica eclissi di vagabonde contemplazioni da fuorilegge giullari, o ilari di voce calda
Anche, Ridley Scott, d’adrenalinica virtù vittoriosa, rinsaldò il mito ai fastosi “paesaggi” dell’anima, intenerendola d’una levriera avventura dalla ribalda chioma nel fruscio d’una movenza d’alabardo nelle balaustre, e scoccheran dardi passionali innervati in fiumi alcolici di mistica Luna, dal mormorio di “flebilità” d’una trasparenza dalle foreste bracconiere, d’un plenilunio già imbrunito di sogni, adamantina cavalleria d’una profonda mitologia d’arder nei “gorgoglii” d’acuminate frecce, fra scalpitii dalla ferocia equina, elmetti “viziati” d’agghindata “cialtroneria”, suoni d’arpe celtiche d’una Inghilterra memore delle sue verdi lande, di scolpite liscezze nel Sol nebbioso di Cuori d’una opalescenza che sarà, di “scaltro” bagliore, struggimento languido d’un “Ti amo”, d’un bacio a carezzar l’epica nella sua taurina primordialità, l’attimo fulgido di folgorati battiti cardiaci che s’offuscaron appannati da dilaniazioni fratricide, da sangue genuflesso senz’ascetica Bellezza del canto romantico alla vita.
In questa malinconia, esondan furori dalla miracolosa levità, medioeval guerriero in fuga dalla mia pelle dispettosa, nella magia d’incanti che sian velluti d’una sbronza erotica di sodomia alle futili vanità.
Intensa leggerezza di gambe di calor “fosco”, come le ombre più fuggevoli del Tempo a noi, insipientemente, onnisciente d’altre pervicacie dal dubbio accalorato, d’arcobaleno rosso e vitreo, in nostri assopiti “eremitaggi” a esser braccia nell’aroma, nella memoria che lievita, “aguzzina” o sol aguzza Bellezza.
Ancora, Lei.
(Stefano Falotico)
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