C’è un punto del film che può esserne la chiave di lettura, quando Dick James, fondatore nel 1969 dell’omonima casa discografica “DJM Records” (appunto “Dick James Music Records”) e già nel 1963, con Brian Epstein, della Northern Songs che mise sotto contratto i Beatles, dice a Reginald Dwight: “Questi brani sono deprimenti. Che cazzo è questa merda? Ma mi prendi per il culo? Al 99% questa roba è di merda. Ma è l’1% che m’interessa. Scrivetemi canzoni che i vecchi barboni fischieranno per strada.” Elton John e Bernie Taupin si ripresentarono con “Your Song”, una dell’innumerevoli ballate alla McCartney composte dal duo, e Dick James commenta: “Favolosa. È la cosa migliore da Let It Be”. Falso, ma la musica degli anni ’70 stava vivendo una fase nuova, diversa e involutiva. Orchestrazioni barocche, pianoforti al posto delle chitarre elettriche, il symphonic rock, il glam rock, il progressive rock, le rockstar rimpiazzate dalle popstar, dai performer e dai vocalist. Elton John e Bernie Taupin hanno svolt’un ruolo centrale in tale allontanamento dal paradigma della composizione rock. Sono pochissime le loro canzoni che fanno eccezione, e non è un caso che corrispondano agl’attimi di gran lunga più potenti del film: “Crocodile Rock” (che non aprì il concerto al Troubadour poiché non era stat’ancora scritta), la cover di “Pinball Wizard” di Pete Townshend per il film “Tommy” (Ken Russell, 1975), la straordinaria “Rocket Man”, che trascend’ogni categorizzazione. Il regista Dexter Fletcher coglie due casi su tre per catapultarsi nella visionarietà, più di preciso in un audiovisivo sospeso fra tempo ed eternità. Decent’e interessante il resto (un musical camuffato da biopic, eppure sincero), però in quei due istanti s’avverte il brivido del grande cinema.
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