Basterebbe il nuovo film di Alfonso Cuarón per tacitare la sterile polemica contro il Festival di Venezia, accusato da The Hollywood Reporter di essere maschilista a causa dell’assenza di registe nella sezione concorso. Perché ROMA, nuova opera del regista messicano presentato in concorso, ha uno sguardo talmente empatico nei confronti del mondo femminile da sembrare girato da una donna. Ed è a tutti gli effetti, come da lui stesso dichiarato, una “lettera d’amore” alle figure femminili più importanti della sua vita, quelle che lo hanno cresciuto, accudito, protetto, tanto che in più momenti sembra traboccare di riconoscenza.
Cuarón torna in Messico dopo parecchi anni dai tempi dell’esordio Y Tu Mama También (presentato proprio qui a Venezia) e lo fa per la sua opera più personale. Autobiografica al punto da aver richiesto l’utilizzo di mobili e oggetti della casa d’infanzia. E tutto sommato non è affatto paradossale che il regista si sia deciso a questo scavo nell’inconscio individuale e famigliare dopo essersi spinto nel punto più lontano di tutti: lo spazio. Erano 15 anni che il regista premio Oscar per Gravity accarezzava il desiderio di raccontare la storia della sua famiglia, del suo quartiere (Roma, da cui il titolo) e del suo Paese, ma è stato solo dopo aver girato parecchi film per i gringos statunitensi, come Harry Potter, I figli degli uomini o il già citato film con Clooney e la Bullock, che Cuarón ha sentito l’esigenza di fare ritorno a casa, e in definitiva a se stesso, per raccontare qualcosa di così viscerale.
Per svolgere questo viaggio nella memoria la regia si affida ai piani sequenza e a un bianco e nero nitido e luminoso. Il viaggio nel tempo viene compiuto seguendo le vicissitudini di Cleo (la bravissima attrice non professionista Yalitza Aparicio), giovane collaboratrice domestica (di origine india) di una famiglia di classe media. Ne emerge una fotografia vivida dei conflitti famigliari, delle gerarchie sociali e del tumulto sociale esistente in Messico negli anni ’70, ma soprattutto l’ammirazione per la forza quasi archetipale della donna, la sua capacità di fare da collante, lo spirito di sacrificio, la resistenza di fronte alle avversità.
Sono di tutt’altra sostanza le meteoriti che si scagliano sull’eroina di quest’ultimo film. Non corpi siderali o atmosfere ostili come quelle attraversate da Sandra Bullock, ma le piccole grandi difficoltà che possono capitare a una donna poco istruita e senza grandi risorse economiche sullo sfondo di un Messico a pezzi, che non offre speranze né vie di fuga. Un contesto talmente disastrato e costellato da figure maschili così inaffidabili e puerili da pretendere l’affidarsi alle sole proprie risorse interiori o alla solidarietà con altre donne.
Roma è una malinconica ballad grazie a cui Cuarón mette da parte la spettacolarità degli ultimi kolossal, per ritornare a una dimensione più autentica e personale, in cui si svela totalmente: dalla cacca di cane in cortile alla lotta di classe, dall’affezione per la tata al disincanto nei confronti della figura paterna. Un Amarcord struggente da cui non riesce a distaccarsi e a cui attinge costantemente per corroborare il suo immaginario.
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